Giacomo Ramella Pralungo, autore di narrativa
fantascientifica e articoli storici, culturali e scientifici, ha presentato
una lettera in cui espone il proprio pensiero sui drammatici eventi che hanno
luogo in Terra Santa, esprimendo seri dubbi sulla politica israeliana, che non
esita a definire apartheid, e piena solidarietà al popolo palestinese.
Nei
giorni scorsi il Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, è
intervenuto durante una riunione del Consiglio di Sicurezza, il principale
organo esecutivo delle Nazioni Unite, per commentare la situazione nella
Striscia di Gaza. Parlando del feroce attacco del 7 ottobre compiuto dal gruppo
radicale islamista Hamas, dicendo che per quanto le violenze non siano
giustificabili, «è importante riconoscere che gli attacchi di Hamas non siano
avvenuti nel vuoto: il popolo palestinese è stato sottoposto a cinquantasei
anni di soffocante occupazione. Hanno visto la loro terra costantemente
divorata dagli insediamenti e piagata dalla violenza, la loro economia
soffocata, la loro gente sfollata e le loro case demolite. Le loro speranze per
una soluzione politica alla loro situazione sono svanite». Il discorso è stato
immediatamente molto criticato da vari esponenti istituzionali di Israele
perché ritenuto non sufficientemente empatico nei confronti delle violenze
subite dagli israeliani e al contempo troppo poco duro con Hamas, che Israele e
altri Paesi considerano da tempo un’ organizzazione terroristica. Dall’ istituzione
dello Stato di Israele nel 1948, i governi che si sono avvicendati hanno creato
e preservato un sistema di leggi, politiche e pratiche progettate per opprimere
e dominare le e i palestinesi. Questo sistema funziona in modi diversi nelle
diverse aree in cui Israele esercita il controllo sui diritti dei palestinesi,
ma l’ intento è sempre lo stesso: privilegiare gli ebrei israeliani a spese dei
palestinesi. Come si legge in un messaggio pubblicato in rete nel marzo 2019
dal Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu: «Israele non è lo Stato di
tutti i suoi cittadini, ma piuttosto lo Stato-nazione del popolo ebraico e solo
il loro.».
L’
esodo palestinese del 1948, conosciuto soprattutto nel mondo arabo, e fra i
palestinesi in particolare, come nakba,
che significa «catastrofe» in arabo, è l’ allontanamento forzato della
popolazione araba palestinese durante la guerra civile del 1947-48, al termine
del mandato britannico, e durante la guerra arabo-israeliana del 1948, dopo la
fondazione dello Stato di Israele. Durante tale conflitto, più di
settecentomila arabi palestinesi abbandonarono città e villaggi o ne furono
espulsi e, successivamente, si videro rifiutare ogni loro diritto al ritorno
nelle proprie terre, sia durante che al termine del conflitto. La proporzione
fra i palestinesi che erano fuggiti o che furono cacciati, le cause e le
responsabilità dell’ esodo, il suo carattere accidentale o intenzionale, come
pure il diniego, dopo la cessazione dei combattimenti, del diritto al ritorno
degli abitanti arabo-palestinesi, musulmani e cristiani, sono un soggetto
fortemente dibattuto sia da parte degli studiosi della questione
israelo-palestinese, che degli storici specialisti degli eventi di tale
periodo. Questo esodo è anche all’ origine del successivo problema dei
rifugiati palestinesi, che costituisce uno dei contenziosi più difficili da
risolvere del più ampio conflitto arabo-israeliano e israelo-palestinese. A
settantacinque anni dalla loro espulsione, la sofferenza e lo sfollamento dei
profughi palestinesi sono una realtà quotidiana. I palestinesi che sono fuggiti
o sono stati espulsi dalle loro case in quello che oggi è Israele, insieme ai
loro discendenti, hanno il diritto al ritorno così come stabilito dal diritto
internazionale. Tuttavia, non hanno praticamente alcuna prospettiva di poter
tornare alle loro case, molte delle quali distrutte da Israele, o ai villaggi e
alle città da cui provengono. Israele non ha mai riconosciuto questo loro
diritto. Negare una casa ai palestinesi è al centro del regime di apartheid imposto da Israele ai
palestinesi. L’ espropriazione delle proprietà dei palestinesi non si è fermata
e la nakba è diventata l’ emblema
dell’ oppressione che i palestinesi devono affrontare ogni giorno, da decenni.
Oggi, oltre cinque milioni e seicentomila palestinesi rimangono rifugiati e non
hanno diritto al ritorno. Almeno altri centocinquantamila corrono il rischio
reale di perdere la casa a causa della brutale pratica israeliana di
demolizioni di case o sgomberi forzati. La nuova ricerca di Amnesty
International dimostra che Israele impone un sistema di oppressione e
dominazione sulle e sui palestinesi in tutte le aree sotto il suo controllo: in
Israele e nei Territori occupati, e contro i rifugiati palestinesi, in modo che
a beneficiarne siano le e gli ebrei israeliani. Ciò equivale all’ apartheid ed
è proibita dal diritto internazionale. Leggi, politiche e pratiche volte a
mantenere un sistema crudele di controllo sulle e sui palestinesi, li hanno
frammentati geograficamente e politicamente, spesso impoveriti in un costante
stato di paura e insicurezza.
L’
apartheid non è accettabile in
nessuna parte del mondo. Quindi perché il mondo accetta quello in corso contro
i palestinesi? I diritti umani sono stati a lungo tenuti da parte dalla
comunità internazionale quando ha affrontato la lotta e la sofferenza
pluridecennale della popolazione palestinese. Di fronte alla brutalità della
repressione israeliana, la popolazione palestinese chiede da oltre vent’ anni
che venga compreso che la politica israeliana è una politica di apartheid. Nel
corso del tempo, a livello internazionale, il trattamento riservato da Israele
ai palestinesi ha iniziato a essere considerato in maniera sempre più ampia
come apartheid. Tuttavia, i governi
con la responsabilità e il potere di fare qualcosa si sono rifiutati di
intraprendere qualsiasi azione significativa per chiedere conto a Israele delle
sue responsabilità. Al contrario, si sono nascosti dietro un processo di pace
moribondo a scapito dei diritti umani. Sfortunatamente, la situazione odierna
non vede alcun progresso verso una soluzione, ma anzi il peggioramento dei diritti
umani per i palestinesi. Amnesty International chiede a Israele di porre fine
al crimine internazionale dell’apartheid, smantellando le misure di
frammentazione, segregazione, discriminazione e privazione, attualmente in atto
contro la popolazione palestinese.
Le
autorità israeliane hanno fatto tutto ciò attraverso quattro principali
strategie: frammentazione in domini di controllo, espellendo centinaia di
migliaia di palestinesi e distruggendo centinaia di villaggi palestinesi, in
quella che è stata una pulizia etnica; espropri di terra e proprietà, in cui i
palestinesi sono stati confinati in enclavi separate e densamente popolate;
segregazione e controllo, che vede Israele negare ai palestinesi i loro diritti
alla nazionalità e allo status uguali, mentre i palestinesi nei Territori
palestinesi occupati affrontano severe restrizioni alla libertà di movimento da
parte di Israele che limita anche i diritti delle e dei palestinesi all’ unificazione
familiare in modo profondamente discriminatorio; privazione di diritti
economici e sociali, con i palestinesi che vivono forti limitazioni discriminatorie
nell’ accesso e nell’ uso di terreni agricoli, acqua, gas e petrolio tra le
altre risorse naturali, così come restrizioni nell’erogazione di servizi
sanitari, di istruzione e di servizi di base.
Ebrei antisionisti a Trafalgar Square, luglio 2006; |
Il
popolo palestinese è sistematicamente sottoposto a demolizioni di case e
sgomberi forzati, e vive nella costante paura di perdere le loro case. Per più
di settant’ anni, Israele ha spostato con la forza intere comunità palestinesi.
Centinaia di migliaia di case palestinesi sono state demolite, causando
terribili traumi e sofferenze. Più di sei milioni di palestinesi rimangono
rifugiati, la maggior parte di questi vive in campi profughi anche al di fuori
di Israele e dei Territori palestinesi occupati. Ci sono più di centomila
palestinesi negli Territori palestinesi occupati e altri sessantottomila all’ interno
di Israele a rischio imminente di perdere le loro case, molti per la seconda o
terza volta.
Il
popolo palestinese è intrappolato in un circolo vizioso. Israele richiede loro
di ottenere un permesso per costruire o anche solo di erigere una struttura
come una tenda, ma a differenza delle e dei richiedenti ebrei israeliani
raramente rilascia loro un permesso. Molti palestinesi sono costretti a
costruire senza permesso. Israele poi demolisce le case palestinesi sulla base
del fatto che sono state costruite illegalmente.
Israele usa queste politiche discriminatorie di pianificazione e suddivisione
in zone per creare condizioni di vita insopportabili per costringere le e i
palestinesi a lasciare le loro case per permettere l’ espansione
dell’insediamento ebraico. Mohammed Al-Rajabi, un residente della zona di
Al-Bustan a Silwan, la cui casa è stata demolita dalle autorità israeliane il
23 giugno 2020 sulla base del fatto che era stata costruita illegalmente, ha descritto ad Amnesty
International l’impatto devastante sulla sua famiglia: «E’ estremamente
difficile da affrontare. Potrebbe essere difficile da esprimere a parole… e ho
percepito che è stato più difficile per i miei figli che per noi. Erano davvero
entusiasti che avessimo questa nuova casa. Conserverò le foto di quel giorno e
le mostrerò ai miei figli quando saranno grandi, così non dimenticheranno
quello che ci è successo. Dirò loro, ‘vedete che tipo di ricordi ho da
trasmettervi?’. Il mio piano era che avessero una casa calda e familiare vicino
ai loro cari e ai loro familiari. Ora sto trasmettendo i ricordi della distruzione
della loro prima casa d’ infanzia.».
Israele
ha commesso metodicamente gravi violazioni dei diritti umani contro i
palestinesi per decenni. Violazioni come il trasferimento forzato, la
detenzione amministrativa, la tortura, le uccisioni illegali e le lesioni
gravi, e la negazione dei diritti e delle libertà fondamentali sono state ben
documentate da Amnesty International e da altri. E’ chiaro che il sistema dell’
apartheid israeliano viene mantenuto
commettendo questi abusi, che sono stati perpetrati nella quasi totale
impunità. Questi abusi fanno parte di un attacco diffuso e sistematico contro
la popolazione palestinese, portato avanti nel contesto del regime
istituzionalizzato di oppressione e dominio sistematico di Israele sui
palestinesi, e quindi costituiscono crimini contro l’ umanità di apartheid. Le
autorità israeliane hanno goduto dell’ impunità per troppo tempo. L’ incapacità
internazionale di chiedere conto a Israele significa che le e i palestinesi
continuano a soffrire ogni giorno. E’ ora di alzare la voce, di stare con i
palestinesi e dire a Israele che l’ apartheid
non può più essere tollerato. Per decenni, i palestinesi hanno chiesto la fine
dell’ oppressione in cui vivono, e personalmente ritengo che si debba ricordare
a Israele che in passato lo stesso popolo ebraico ha subito pregiudizi e
persecuzioni violenti e ingiusti, soprattutto istigati dai cristiani e dalle
autorità ecclesiastiche che lo accusava di deicidio e lo relegava a tutte
quelle professioni immorali, come l’ usura, e, più in generale a quelle che non
gli avrebbe conferito un vantaggio su coloro che seguivano la pura dottrina. Quanto
subito durante il Terzo Reich dovrebbe fungere da lezione di tolleranza e
solidarietà, ma purtroppo i palestinesi pagano troppo spesso un prezzo
terribile per lottare per i loro diritti, e da tempo chiedono che il mondo li
aiuti. Che questo sia l’ inizio della fine del sistema di apartheid di Israele contro la popolazione palestinese.
Giacomo Ramella Pralungo
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