domenica 21 maggio 2023

La passione di uno scrittore per il tè…


Il 21 maggio 2005 a Nuova Delhi fu istituita dall’ Organizzazione delle Nazioni Unite la Giornata Internazionale del Tè, nel desiderio di richiamare l’ attenzione sulle condizioni dei lavoratori nelle piantagioni di camellia sinensis, da cui la nota bevanda viene ricavata. Il tè è importante non solo come materia prima, ma anche come patrimonio e principale mezzo di sussistenza dei piccoli produttori. E’ peraltro la bevanda più consumata al mondo dopo l’ acqua: in Oriente, ove se ne concentra la produzione soprattutto nelle zone tropicali e subtropicali, è al centro di un antico e affascinante rituale sociale e spirituale, in Giappone chiamato Cha no yu. In Occidente si sta ritagliando un sempre maggiore spazio, tra aumento dei consumi, sale da tè specializzate e corsi dedicati, tanto che in Italia c’ è persino chi la produce, come Marco Bertona e il suo Tè Bianco del Verbano. Nella cultura occidentale si è persino ritagliata un grande spazio nella letteratura, nei grandi romanzi realisti specialmente. Giacomo Ramella Pralungo, autore di fantascienza e articolista di temi storici e culturali, ne è notoriamente un estimatore, e non ha mancato l’ occasione di riflettere sul senso e l’ apprezzamento di cui il tè gode.


Il tè del tatdo pomeriggio di Giacomo;

Giacomo ci guida tutto contento in salotto, ove il tè è servito: «Bevanda meno arrogante del vino, non egocentrica quanto il caffè e non così innocua quanto il cacao, il tè è originario della Cina meridionale. La ricorrenza di oggi vuole essere un modo per sottolineare il suo ruolo nello sviluppo sostenibile e nella conservazione della biodiversità, con una certa attenzione al sostegno dei piccoli produttori e ai possibili vantaggi per tutti, dal campo alla tazza. La sua produzione e lavorazione costituiscono i principali mezzi di sussistenza per milioni di famiglie nei Paesi in via di sviluppo, ma a dispetto del suo contributo necessario allo sviluppo rurale, alla lotta alla povertà, alla conservazione della biodiversità e alla nutrizione, il suo settore rimane esposto a una serie di sfide come l’ impatto di condizioni climatiche avverse, l’ accesso ai mercati per i piccoli produttori, la mancanza di trasparenza e la sostenibilità della catena del valore del tè.». Sorseggia lui stesso un po’ di tè, domandando se abbiamo mai visto una piantagione di tè a terrazze: «Io amo osservarne le fotografie, e un giorno vorrei tanto visitarne una di persona. Il verde ovunque, l’ infinita ripetizione di linee serpeggianti che delimitano i gradini ricoperti di camellia sinensis, la sensazione che il mondo inizi e termini lì, l’ assenza di orizzonti che non siano altre montagne ricoperte di tè: forse è da questo che deriva la meditazione, l’ elevazione dell’ io oppure dello spirito, ammesso che siano due cose distinte, e la riconquista del gioiello della vita. Tutte cose a noi lontanissime, eppure reali e presenti.». La camellia sinensis era ben nota fin dall’ antichità nella botanica e nella medicina, e le si attribuivano importanti proprietà terapeutiche come quella di offrire sollievo alla fatica, allietare l’ animo, rafforzare la volontà e guarire problemi di vista. Talvolta le sue foglie venivano somministrate per uso esterno, sotto forma di impacchi, per alleviare dolori di origine reumatica. In ambiente religioso, ove trovò una funzione tuttora portata avanti soprattutto nei monasteri buddhisti cinesi e giapponesi, le foglie della sua pianta venivano considerate un ingrediente fondamentale di quell’ elisir di lunga vita invano bramato dai maestri taoisti. Durante la metà del Cinquecento, i primi missionari cristiani, i gesuiti, arrivarono in Giappone e provarono da subito una forte ammirazione per la pratica del tè, che fece il suo ingresso in Europa attorno alla metà del Seicento e divenendo apprezzato su vasta scala, anche popolare, durante l’ Ottocento, durante il regno di Vittoria del Regno Unito, prima Imperatrice d’ India.


Alla domanda su come abbia scoperto il tè, lo scrittore risponde che fu all’ età di otto o nove anni, quando alle 16:00 sua madre glielo preparava per merenda con qualche biscotto: «Quest’ abitudine non durò particolarmente a lungo, ma fu allora che mi accorsi che mi piaceva. Nel 2006, a ventidue anni, mi trasferì in Ghana, Africa occidentale, ove vissi per i successivi quindi anni e in quel periodo presi la consuetudine di berlo ogni giorno. Usanza che preservo tuttora. Mi piace addolcirlo soprattutto con lo zucchero di canna oppure con il miele. A poca distanza da casa mia vi è un apiario che mi piace osservare durante le mie passeggiate, e trovo che le api ci facciano davvero un grandissimo dono con la loro proverbiale operosità!». Gli chiediamo qual’ è il tè che ama di più, e lui cita il Darjeeling, l’ Earl Grey, il Prince of Wales e il tè verde: «Il tè Darjeeling, originario del Bengala occidentale, è tradizionalmente considerato il più pregiato dei tè neri, soprattutto in Gran Bretagna e nelle sue ex colonie. L’ Earl Grey è una miscela realizzata con i migliori tè neri provenienti da piantagioni selezionate in tutto il mondo e aromatizzata con l’ olio estratto dalla scorza del bergamotto. Il tè Prince of Wales Tea, dedicato a Re Edoardo VIII del Regno Unito nel 1921, quando ancora era erede al trono come Principe di Galles, è realizzato con i più pregiati tè neri provenienti dalle province della Cina centrale e meridionale, ha un profumo intenso e un sapore leggero e delicato, in cui si percepiscono note fruttate e un lieve sentore di cacao. Il tè verde è invece una variante ottenuta con foglie che durante la lavorazione non subiscono l’ ossidazione, e per tradizione è considerato in grado di apportare i migliori benefici alla nostra salute.». Che cosa lo affascina di più del tè, a parte il sapore? «Thích Nhất Hạnh, monaco buddhista e poeta vietnamita venuto a mancare il 21 gennaio 2022, disse che bevendo il tè si bevono nuvole.» risponde «Vale a dire che tutto è in relazione con tutto, ogni cosa è dipendente dalle condizioni causanti. Una tazza di tè che arriva sul nostro tavolo e che noi beviamo dipende da una serie di fattori concomitanti: una pianta, la terra, la pioggia e il sole, un agricoltore che coltiva la piantagione, un certo tempo per permettere alle foglie di crescere e maturare, qualcuno che le raccoglie, qualcun altro che le fa essiccare, appassire, ossidare, ammassare, fermentare e maturare per poi impacchettarle e portarle al mercato, qualcuno che prima di noi non compra il pacchetto, e noi che arriviamo dopo e lo scegliamo. Ciascuna di queste condizioni è a sua volta determinata da numerose altre che la precedono, e determineranno le infinite altre che la seguiranno. Peraltro, secondo il Buddhismo, come ogni altra cosa il tè è tale per differenza da tutto ciò che non è tè. Non è tè o altro, ma perché noi da un lato lo mettiamo in relazione al nostro concetto di tè e dall’ altro al nostro concetto di non tè. Dunque, tutto è una relazione, nella quale noi controlliamo ben poche cose!». Secondo la filosofia Zen, prosegue, per godersi a dovere il tè bisogna essere calati nel presente. Solo nella consapevolezza del presente le mani possono sentire il piacevole calore della tazza, assaporare l’ aroma, sentire la dolcezza e apprezzare la delicatezza: «Se sei preso dal passato o dal futuro, perdi del tutto il piacere del tè. Anzi, guaderai nella tazza e il tè non ci sarà neanche più. Con la vita vale lo stesso identico principio.».

Con questo spirito, prosegue dicendo che ama molto i prodotti della Dilmah, una delle aziende di tè più importanti al mondo il cui amministratore delegato, Dilhan Fernando, intende una ditta come servizio umano, puntando su un commercio etico che sostenga l’ economia e l’ agricoltura locali: poiché ogni azienda di successo ha un’ influenza sulla comunità dove opera, sui suoi clienti e sull’ ambiente, il suo lavoro deve cercare di cambiare in meglio le vite umane.


Dopo qualche istante di silenzio, aggiunge che questa bevanda si è ritagliata un notevole spazio nella letteratura, soprattutto nei grandi romanzi realisti, ma non solo: «Il momento in cui si beve il tè assume un significato culturale e simbolico nello stesso tempo. Fin dall’ inizio del Novecento rappresenta un rito così importante da consacrare un intero momento della giornata come l’ ora del tè. Un rito di certo non legato a un momento di meditazione e di ricerca individuale come in Cina e Giappone, bensì a un momento in cui si esprimono abitudini e costumi di società.». All’ interno delle opere della letteratura classica ci sono numerosi riferimenti a questa bevanda, che assume valore sempre diverso. E’ sinonimo di intensità, piacere, tradizione e condivisione.

Alla combinazione di tè e letteratura si è dedicata Eileen Reynolds in un articolo intitolato «Tea: a Literary Tour» e pubblicato nel 2010 sul The New Yorker. Nella letteratura britannica il tè è l’attore non protagonista più ricorrente se si pensa, ad esempio, ai romanzi delle sorelle Brontë, di Charles Dickens o Jane Austen. Talmente frequenti sono i riferimenti nelle scene di quest’ ultima autrice, che Kim Wilson ha pubblicato un libro al riguardo, «Tea with Jane Austen». L’ opera in cui l’ ora del tè assume il ruolo più iconico e memorabile è il romanzo fantastico «Alice nel Paese delle Meraviglie» di Lewis Carroll. Al di là dell’ impiego letterario, cvi fu un autore britannico per cui il tè era una vera e propria cerimonia, un insostituibile rito quotidiano: il giornalista e attivista politico George Orwell, noto per i romanzi «1984» e «La fattoria degli animali». Nel 1946 pubblicò un articolo, intitolato «A nice cup of tea», in cui descrisse la sua personale ricetta per una tazza di tè perfetta, articolata in non meno di undici punti essenziali.

«Eppure, non si può parlare del tè senza pensare alla famosa cerimonia di cui è oggetto in vari Paesi asiatici, soprattutto il Giappone.» prosegue Giacomo finendo di bere «E’ al centro di una vera e propria attività culturale, un rito in cui attraverso forme e gesti ben precisi in cui la bevanda si prepara e si degusta, accompagnando il processo a pratiche meditative e spesso religiose. Le cerimonie del tè differiscono da Paese a Paese per norme, metodi e principi. Indica il processo di preparazione, presentazione e degustazione del tè ruotanti saldamente attorno ai valori di rispetto, armonia, purezza e tranquillità che avvolgono tutto il rituale, dal rapporto tra coloro che prendono parte alla cerimonia a quello con gli accessori che servono alla preparazione, e infine a quello con il cibo che viene consumato.». Nel Buddhismo Zen, la forma più famosa per eccellenza del Buddhadharma giapponese, si dice che si può incontrare un intero universo bevendo una tazza di tè: questo avviene con l’ immersione totale nel qui ed ora e partecipando del tutto alla cerimonia con un cuore libero da sentimenti di egoismo. Si dice, peraltro, che il tè è il tè e lo Zen è lo Zen, sebbene appassionati di tè e seguaci dello Zen siano interessati sia all’ uno che all’ altro. I monaci Zen giapponesi vedono il tè come un ottimo strumento capace di tenere desta la mente e quindi di prolungare la meditazione. Si racconta persino che il monaco indiano Bodhidharma, XXVIII patriarca del Buddhismo indiano secondo la tradizione Chán e Zen che raggiunse la Cina nel 526 dopo Cristo, mentre sedeva in meditazione fu colto dal sonno e al suo risveglio si tagliò le palpebre che caddero a terra, misero radici e germogliarono: la pianta che crebbe da esse fu la prima del tè, simbolo e causa dell’ eterna insonnia. Sempre nel Buddhismo Zen, la tazza di tè viene utilizzata come parabola. Nan-in, un maestro giapponese del Perido Meiji, tra il 1868 e il 1912, ricevette la visita di un professore universitario statunitense che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen, e appena ricevuto gli pose numerose domande, una dopo l’ altra. Nan-in servì il tè in rigoroso silenzio, colmò la tazza del suo ospite continuando però a versare. Il professore guardò meravigliato il tè che traboccava, poi non riuscì più a contenersi dicendogli che era già piena. Nan-in, sorridendo, rispose benevolmente ma fermamente che esattamente come quella tazza il professore era ricolmo delle sue opinioni e congetture: gli sarebbe stato impossibile spiegargli lo Zen se prima non avesse vuotato la propria tazza. Siamo infatti abituati a guardare il mondo non con i nostri reali occhi, ma con l’ occhio della convinzione che ci siamo costruiti negli anni.

Un apiario nella zona dove Giacomo vive;


Recenti studi scientifici hanno inoltre evidenziato che l’ abituale consumo di tè porta enormi benefici alla salute, che Giacomo ha valutato attentamente: «E’ ricco di antiossidanti in grado di contrastare i radicali liberi responsabili dell’ invecchiamento e fondamentali nella prevenzione di alcune malattie cardiovascolari. E’ una bevanda infinitamente preziosa per la nostra salute. Studi sempre più aggiornati dimostrano ormai in modo inequivocabile che, specie quello verde, riduce pressione e colesterolo, diminuisce il rischio di ictus, previene alcuni tumori come ad esempio quello al colon. Inoltre aiuta la digestione e rafforza i denti. In una parola, come dicono i cinesi: il tè allunga la vita. Uno dei modi migliori per beneficiare al meglio delle sue proprietà è addolcire la tazza con il miele, più naturale e senza controindicazioni, piuttosto che con lo zucchero. La dose raccomandata per avere i massimi benefici è di tre tazze al giorno, possibilmente a digiuno: l’ efficacia è assai maggiore.». Peraltro, aggiunge, uno studio pubblicato sulla rivista Aging suggerisce che sorseggiare una tazza di tè in modo regolare potrebbe avere effetti benefici sulla struttura del nostro cervello: «L’ indagine, a cura di una squadra internazionale, si è avvalsa di un gruppo di volontari le cui abitudini sono state inizialmente valutate tramite un questionario. Una volta divisi i bevitori regolari di tè dai non regolari e dai non consumatori, tutti i partecipanti sono stati sottoposti a risonanza magnetica, per documentare eventuali differenze all’ interno della scatola cranica. Si è così scoperto che gli amanti del tè possono contare su una minore asimmetria nelle connessioni presenti nei due emisferi del cervello. Le reti neurali sono sviluppate in modo piuttosto simile su entrambi i lati, con l’ ulteriore evidenza di connessioni robuste nelle aree del cervello coinvolte nei processi di pianificazione e relazionali. Si può quindi azzardare l’ ipotesi che l’ ottimizzazione delle strutture cerebrali innescata dal tè renda il cervello più efficiente, e ne rallenti pure il deterioramento. Alcuni esperti osservano inoltre che la propensione a consumare molta teina potrebbe andare a braccetto con altri fattori in grado di influenzare la salute dei neuroni: ad esempio, le persone socievoli potrebbero passare l’ ora del tè in compagnia amici e parenti, cosa che influenzerebbe già da sé e ampiamente in positivo l’ impalcatura del cervello.».


Chiediamo a Giacomo se c’ è una forma di tè che vorrebbe provare, e lui ridacchiando risponde prontamente: «Il tè tibetano. E’ molto lontano dal classico tè indiano o cinese. Si tratta infatti di una miscela di foglie di tè con sale, bicarbonato e burro di yak, il famoso bovino tibetano simile ad un grosso toro ma con pelo più folto e lungo. Il tutto è mescolato in un cilindro di legno. Non importa dove si è diretti: in Tibet ci sarà sempre una tazza bollente ad accogliere l’ ospite come segno di benvenuto, un compagno amichevole per nomadi e viaggiatori.». Parlando di tè, il burro non è la prima cosa che viene in mente agli occidentali, ma i tibetani amano aggiungerne in buone dosi, perché l’ alto contenuto di grassi è perfetto per la vita in alta quota e per contrastare il freddo dell’ altopiano himalayano, tra i quattro e i cinquemila metri di quota. Secondo la tradizione, ci racconta lo scrittore, gli ospiti non devono mai bere tutto il tè dalla tazza, dovendo lasciarne un po’ per far capire al padrone di casa che ne desidera ancora. Quando non se ne vuole più, si può versare il tè rimasto in una coppa apposita sul pavimento, ma mai prima della terza o quarta tazza, per non apparire scortesi: «Alcuni conoscenti che nel gennaio 2011 incontrai all’ Istituto Lama Tzong Khapa, in provincia di Pisa, dopo un loro viaggio tra India del nord e Nepal, ove vissero con molti tibetani, mi dissero che per la bocca di un occidentale il tè tibetano risulta disgustoso. Eppure, i tibetani arrivano a berne dalle quaranta alle sessanta piccole tazze al giorno, per la nutrizione e l’ idratazione, dopo i pasti, durante le preghiere o semplicemente durante le conversazioni tra amici e familiari.».

lunedì 8 maggio 2023

La stima di Giacomo per il professor Barbero

Giacomo Ramella e il prof. Barbero;


Giacomo Ramella Pralungo, autore di romanzi di narrativa fantascientifica e di articoli di storia, cultura e scienza, in virtù della sua antica passione per la storia che lo porta a definirsi «storico dilettante», è un ammiratore del professor Alessandro Barbero, docente di Storia medievale presso l’ Università del Piemonte Orientale di Vercelli. Dopo alcuni contatti via posta elettronica, i due si sono personalmente incontrati sabato 29 aprile 2023 alla Libreria Giovannacci di Biella, la città di Giacomo, in occasione della presentazione di «Brick for stone», romanzo in cui il popolare insegnante racconta l’ 11 settembre 2001 mischiando realtà storica e invenzione letteraria.

La seguente pubblicazione è ricavata da una conversazione che Giacomo ha avuto alcuni giorni dopo in proposito, nella quale ha commentato la figura rappresentata da questo grande studioso, che negli ultimi anni ha acquisito una notevole popolarità su Internet grazie all’ abilità divulgativa in una serie di conferenze e lezioni trasmesse su YouTube, che hanno guadagnato centinaia di migliaia di visualizzazioni.



In una civiltà alla rovescia come questa, come mia madre la definì poco prima di morire con la raccomandazione di non stupirmi più di tanto di ciò che avrei visto, in cui più una persona è scombinata e volgare e più gode di stima e visibilità, è bello constatare che qualcuno che ancora disponga di intelligenza e preparazione riesca a farsi notare e a godere di un certo peso e successo. Il professor Barbero è una persona veramente notevole, dotato di una grandissima conoscenza e abilità comunicativa, potrebbe infatti parlare per una vita intera di argomenti vasti e sfaccettati in modo semplice e diretto, molto coinvolgente e con vivo entusiasmo, che riesce a trasmettere in chi lo ascolta. Non avevo mai visto un insegnante e un conferenziere simile, prima di lui. Si trova perfettamente a suo agio nel raccontare la storia in un’ aula universitaria esattamente come in televisione, nei convegni che diventano episodi di contenuti audio diffusi via informatica, e anche scrivendo, come se la storia non fosse altro che un grande romanzo. Come lui stesso ha affermato: «L’ unica differenza tra noi storici e i romanzieri è che loro possono inventare.». Il dubbio che i libri di storia siano scritti in forma opportunamente ritoccata, come nel contesto narrativo, è ragionevole e anche piuttosto antico, si pensi al detto secondo cui la storia viene scritta dal vincitore. Anche in tempi più recenti, grandi storici del Novecento come Marc Bloch non hanno mai avuto paura di una scrittura non accademica, soggettiva. In narrativa, gli autori sono assolutamente liberi, ma chi si occupa di storia si gioca tutto in tema di verificabilità. Oggi siamo nell’ epoca della propaganda politica, che si ripercuote anche nella trasmissione della memoria storica, e delle notizie fasulle, delle pseudonotizie e del negazionismo e revisionismo, e le sue lezioni sono una delle poche certezze di cui disponiamo: in questo momento abbiamo più che mai bisogno di sapere le cose così come sono andate, e lui resta saldamente ancorato al fondamento della verificabilità, la possibile verità sui fatti. Il professore è uno che fa ipotesi, tenta di seguire vie coerenti escludendo quelle che paiono improbabili ed evidenziando ciò che alla fine è il lavoro dello storico, il processo della sua scrittura: sebbene non esatta come la matematica, la storia resta una scienza, e come tale si basa sulla deduzione data dall’ osservazione degli elementi a disposizione, in una continua analisi in cui le conclusioni possono continuamente essere confermate oppure smentite e superate da ulteriori scoperte, mettendo a confronto le voci e le idee di quelli che hanno provato, prima di lui, a interpretare il passato, nel tentativo di capire dove possa nascondersi la verità dei fatti. Il dovere dello storico è comunicare al lettore questo principio. E’ illuminante per noi avere ben chiaro di quanto viviamo in mezzo a ipotesi, valutazioni e interpretazioni, anche soggettive.

Fin da bambino sono sempre stato un grande ammiratore di Piero Angela e, mentre vivevo in Ghana, dal 2009 in poi ogni venerdì sera in agosto seguivo su Rai Internazionale il programma «Superquark», in cui vidi il professore per la prima volta. La sua personalità e il suo stile mi impressionarono dal primo momento, essendo così familiari, spontanei e cordiali. Ascoltandolo, dopo appena pochi istanti si ha la sensazione di comprendere a fondo ciò che spiega, riflettendo su che cosa sia veramente la storia e come ne venga trasmesso il ricordo. Dal 2014 in poi ho avuto l’ occasione di scrivergli via posta elettronica per domandargli aiuto in alcune ricerche, che in seguito sono state alla base di alcuni miei libri e articoli, e mi è stato veramente utile. Mi ha sempre risposto in breve tempo e con molta gentilezza, oltre che con la proverbiale chiarezza e piacevolezza. Nel 2017, poi, assistetti alla presentazione di «Caporetto», di cui acquistai una copia sebbene in quell’ occasione non mi fu possibile restare fino alla fine richiedendogli una dedica. Solo ora ci sono riuscito, dopo oltre cinque anni! Fu comunque un gran piacere sentirlo mentre descriveva lo scenario in cui maturò la famigerata disfatta italiana durante la Grande Guerra, in cui combattemmo contro un Impero antico e multietnico ormai sulla via del crepuscolo: l’ Italia era ancora un Paese arretrato e contadino, e i limiti delle forze armate combaciavano con quelli della stessa nazione, la distanza sociale tra soldati e ufficiali era notevole, e si preferiva affidare il comando dei reparti a giovani diciannovenni di classe borghese piuttosto che promuovere i sergenti, contadini e operai che avevano imparato il mestiere sul campo. Tra ufficiali e soldati non vi era peraltro una comunicazione, con tutti i limiti pratici che ne derivavano. I nostri ragazzi in trincea erano un esercito in cui nessuno voleva prendersi responsabilità, e si aveva paura dell’ iniziativa personale tanto che la notte del 24 ottobre 1917, con i telefoni interrotti dal bombardamento nemico, molti comandanti di artiglieria non osarono aprire il fuoco senza avere ricevuto l’ ordine dai piani alti. Eravamo un Paese retto da una classe dirigente di linguacciuti da cui erano scaturiti generali che emanavano circolari in cui esortavano i soldati a battersi fino alla morte, credendo di aver risolto in tal modo tutti i problemi. Personalmente, io temo che noi oggi non siamo cambiati mica tanto! La scorsa estate 2022 mi ha visto impegnato nella Passione di Sordevolo come comparsa e come attore, ero infatti soldato del Tempio di Gerusalemme e Marsaglia, il fabbro ferraio che inchioda Gesù alla croce. Quando avevo i due ruoli insieme avevo giusto il tempo di cambiarmi dietro le quinte. La sera in cui venne ad assistere allo spettacolo, dopo aver visitato il museo in paese nel pomeriggio, io ero impegnato in entrambi i ruoli, ed è stato un vero privilegio per me, un bel regalo che la vita mi ha fatto.

Nei giorni scorsi, con la presentazione di «Brick for stone», ho finalmente avuto la possibilità di presentarmi di persona e di ringraziarlo per l’ aiuto che mi ha prestato alcuni anni fa, e di esprimergli apprezzamento e stima per la sua preparazione e capacità espositiva. Persone come lui sono veramente speciali, e hanno bisogno di sapere che ciò che fanno a nostro beneficio viene positivamente recepito da noi tutti. Trovo molto importante che sentano la conferma che il loro impegno dia i suoi frutti.



Una delle cose per cui maggiormente apprezzo il professor Barbero è l’ attenzione che presta al tema delle false notizie. Lui dice sempre che esistono fin dall’ inizio della nostra storia, solo noi siamo convinti che siano una novità dei tempi moderni. A suo dire, si trattano soltanto di una versione attuale delle antiche leggende: se da una parte c’ erano quelle che nascevano in maniera spontanea, come le storie su dei, orchi, streghe e personaggi fantastici, dall’ altra c’ erano quelle costruite pezzo dopo pezzo per uno scopo ben preciso. La propaganda politica era una tecnica comprovata già nell’ antica Roma: inventare un episodio o ritoccarlo a seconda dei propri interessi o della parte di popolo che si voleva convincere, specie in occasione delle votazioni, era una pratica abituale. Spesso noi non sappiamo affatto come sia andata la storia. Chiunque, già in quarta elementare, ha studiato che Costantino fu quel particolare imperatore che cristianizzò l’ Impero, ponendo fine alla crudeltà delle persecuzioni e aprendo la strada a venti secoli di storia durante i quali Stato e Chiesa sono andati avanti in armonia a seguito della famosa battaglia di Ponte Milvio, che vide Costantino sconfiggere Massenzio: si racconta che durante lo scontro in cielo apparve la croce e la scritta «In hoc signo vinces», ossia «Sotto questo segno vincerai». Chiaramente, questo particolare è una validissima aggiunta propagandistica, per quanto fantasiosa. Se dopo la battaglia avesse deciso di rimanere pagano, quasi certamente in tutto il mondo si sarebbe detto di come l’ imperatore fosse stato aiutato dagli dei anziché dalla strana e misteriosa divinità ebraico cristiana. Costantino ha regnato sia sui cristiani che sui pagani e non è stato affatto intollerante con questi ultimi, retaggio della precedente religiosità classica: ci sono tracce di discorsi pubblici dell’ epoca stessa in cui i non cristiani imputavano il risultato all’ intervento delle loro divinità. Insomma, chi costruisce le pseudonotizie oggi ha soltanto imparato la lezione dei maestri del passato, non abbiamo inventato nulla di nuovo, c’ è solo una grande differenza: mentre noi le affidiamo a Twitter o ai giornali, per poi vederle passare dopo un giorno, una settimana, un mese o un anno per poi dimenticarle, gli architetti delle bufale dei tempi andati pensavano in termini più lunghi, a come fare affinché venissero ricordate per secoli e secoli nel futuro, e furono in grado di far arrivare i loro falsi miti fino a noi, e con conseguenze non da poco, soprattutto se consideriamo agli strumenti che avevano allora!


Il modo di porsi pacato del professor Barbero, da solo, non basta a spiegare la sua popolarità. All’ interno delle sue conferenze, infatti, non si limita a raccontare la storia. Presenta agli spettatori le fonti, interpretandole e dando loro anche un tocco di teatralità in modo da renderle apprezzabili anche agli occhi di chi non ha mai affrontato la storiografia fuori dalle mura scolastiche. Un livello di narrazione che non dimentica il lavoro e la fatica compiuta dallo storico, ma che anzi sceglie di introdurla al grande pubblico. La fonte, quindi, rimane centrale nella sua narrazione quanto nella scienza storica tradizionale. L’ interpretazione della fonte può essere visto in maniera differente, tra quella dello storico, che contestualizza il documento e ne comprende le sue finalità e la sua origine, e quella del divulgatore, che non esita mettere un po’ di teatro nell’ esporre una testimonianza del passato. Ricorda che il presente non è altro che una continuità con il passato, e consegna dignità al ruolo dello storico e al suo lavoro, mostrando come la nostra stessa vita, gli eventi che viviamo tutti i giorni, siano parte di qualcosa di più grande. Ed è proprio qui che ha luogo il grande merito di questo singolare e geniale divulgatore: rende la storia e i suoi mezzi di ricerca qualcosa di presente, di attuale. Viviamo in un mondo dove le voci corrono incontrollate e diventa sempre più difficile per le persone come noi distinguere una notizia vera da una falsa. Il «popolo della rete» sembra non essere più capace di riconoscere il vero dal falso e spesso accetta passivamente questa diffusione incontrollata delle false notizie. In un simile contesto la figura di questo professore assume una notevole importanza: quella di una persona dotata del sapere necessario per indagare una fonte. Non solo quella storica, ma anche quella attuale. Un esercizio che dona nuova importanza alla disciplina storiografica, quindi.

In questo, l’ operato del professor Barbero ci porta in una dimensione nuova della storia, un mezzo che ci permette di acquisire competenze anche per la vita di tutti i giorni. Tocca di conseguenza a noi utilizzarla secondo la nostra coscienza, allo scopo di riportare i fatti non solo al centro della narrazione storica, ma anche della vita quotidiana. Ogni volta che sentiamo qualcosa, ad esempio, anche un semplice pettegolezzo, dovremmo imparare a chiedere: «Ma tu come l’ hai saputo?».



L’ atteggiamento pratico e veritiero del professore mi riporta al Buddhismo, particolare filosofia orientale che molta importanza ha avuto nella mia vita e che tuttora continua ad affascinarmi. Gli insegnamenti alla base di tutte le scuole vengono trasmessi per mezzo di ciò che viene chiamato lignaggio, che equivale ad una precisa linea di diffusione basata sul passaggio da maestro a discepolo e atta proprio a certificarne la provenienza e la validità, dimostrata dalla realizzazione incarnata dal maestro saggio. Al tempo stesso, nel Nobile Ottuplice Sentiero, la via spirituale basata su un’ esistenza virtuosa che conduce alla cessazione della sofferenza esposta nel Discorso di Benares, il Buddha Śākyamuni stesso parlò di «retta parola», cioè l’ assunzione di responsabilità di ciò che diciamo, ponendo attenzione nella scelta delle singole parole e di come le esprimiamo, in modo da non far del male a nessuno e di conseguenza a noi stessi. Sulla base di questo principio si deve parlare per essere veritieri e non menzogneri, per favorire la chiarezza anziché la confusione e le opinioni errate. Durante i suoi quarantacinque anni trascorsi insegnando, il Risvegliato aggiunse: «Non credere a niente perché ne hanno parlato e chiacchierato in molti. Non credere semplicemente perché vengono mostrate le dichiarazioni scritte di qualche vecchio saggio. Non credere alle congetture. Non credere come una verità ciò a cui ti sei legato per abitudine. Non credere semplicemente all’autorità dei tuoi maestri e degli anziani. Dopo l’ osservazione e l’ analisi, quando concorda con la ragione e conduce al bene e al beneficio di tutti e di ciascuno, solo allora accettalo, e vivi secondo i suoi principi.». Un proverbio Zen, similmente, recita: «Una buona parola tiene un asino inchiodato a un palo per cento anni.». A tutto ciò, Lama Paljn, guida spirituale del centro buddhista tibetano Samten Ling di Graglia, con cui ho un rapporto personale di stima e amicizia, spiega che il concetto di «retta parola» insiste sull’ evitare bugie, maldicenza, zizzania, offese e pettegolezzo, e aggiunge che le parole non esistono di per sé, ma servono a intendere l’ infinito e aiutano a favorire la «retta comprensione», ossia vedere le cose nella loro vera natura, così come sono senza il filtro delle opinioni soggettive. La parola non deve nuocere, perché comunicare ci rende più umani in quanto siamo animali sociali che vivono in gruppo. La comunicazione è uno strumento di civiltà da usare per fini consapevolezza e di liberazione sia personale che altrui.

L’ impiego pratico, semplice e diretto della parola al fine di esprimere idee precise e fondate e verificabili avvalorato dal Buddha Śākyamuni nell’ India settentrionale di duemilacinquecento anni fa è molto vivo nel professor Barbero, come ho personalmente constatato. In un’ epoca in cui l’ informazione, e quindi la parola, è pilotata per influire sull’ opinione pubblica a vantaggio di discutibili interessi settari, noi oggi abbiamo la fortuna di beneficiare di un uomo che invece la usa per indicarci qualcosa di tangibile, logico e pienamente confermabile. E’ davvero un bene che in mezzo a tante figure oggi alla moda soprattutto tra i più giovani, tra opinionisti televisivi dediti ad un linguaggio sempre più volgare come Luciana Littizzetto e celebrità di Internet non vincolate da alcun valore etico fondamentale vi sia invece chi, come lui, tiene un basso profilo e si esprime con classe e dignità parlando di ciò che ha convenientemente valutato e compreso. E sono veramente fortunato ad avergli stretto la mano in amicizia e rispetto! Lo reputo in tutta sincerità un esempio formidabile da cui ho molto da apprendere.

giovedì 4 maggio 2023

Giacomo Ramella Pralungo e la fantascienza, un legame strettamente personale



Giacomo Ramella Pralungo, autore di romanzi di narrativa fantascientifica e articoli a sfondo culturale, storico e scientifico, spiega il rapporto che lo unisce al grande genere della fantascienza, una vera e propria affinità che risale all’ infanzia, se non addirittura oltre…


Seduto dando le spalle al camino e sfogliando un volume, Giacomo inizia spiegando che quando iniziò a sentire l’ esigenza di dedicarsi alla scrittura gli era chiaro che si sarebbe occupato innanzitutto di romanzi di fantascienza: «E’ un genere a cui mi sono avvicinato ad otto anni. Ero in aula, in terza elementare, quando per caso lessi durante una pausa un breve racconto sull’ antologia usata per la materia di italiano. Era una vicenda che aveva per protagonista un bambino che viveva in una città del futuro. Nella mia mente immaginai questo bambino in un ambiente del genere, proprio in un’ epoca in cui ancora si credeva che l’ ormai vicino XXI secolo avrebbe visto avverarsi una simile scenografia: in quel preciso momento mi sentì conquistato dalla fantascienza.».

Da allora, questo genere divenne una costante nella sua vita. Iniziò a guardare i primi film in televisione, da «Ritorno al futuro» a «Star Trek», per poi passare attraverso grandi generi come «Dune» e «Guerre stellari». A quindici anni lesse le opere di Herbert George Wells, a diciassette l’ esalogia di «Dune» di Frank Herbert, e a ventiquattro la serie di «Jurassic Park» di Michael Crichton: «Tra i romanzi e racconti di fantascienza si trovano alcuni tra i migliori esempi di narrativa immaginaria eppure saldamente ancorata alla realtà. Benché infatti le storie parlino di viaggi attraverso lo spazio e il tempo, tra pianeti e Galassie estremamente lontani e passati e futuri alternativi, utopici o addirittura distopici, la fantascienza non manca mai di ispirare riflessioni sul genere umano, sulla società e sulla storia, inseparabili da ciò che ci circonda nel mondo vero in cui noi tutti viviamo.». Si tratta di un genere narrativo molto ampio che si è diffuso non solo tramite libri, ma anche grazie a fumetti, cinema, serie televisive, radiodrammi, podcast, e molte altre forme d’ arte. Non è facile definirne i confini, o un preciso punto di inizio: «Il suo grande successo si rende evidente alla fine dell’ Ottocento, e da allora continua ad appassionare i suoi estimatori e guadagnarne di nuovi. Ormai, concetti complessi come vita extraterrestre, linee di tempo, intelligenze artificiali, multiversi, linee temporali, gallerie gravitazionali e teletrasporto sono scientificamente ammessi e così comuni ai lettori da non richiedere più premesse e spiegazioni affinché la trama sia chiara, e gli autori si muovono sempre più abilmente tra più generi, rendendo difficile tracciare una linea netta tra romanzi di fantascienza e ucronie, distopie, utopie, narrazioni postapocalittiche. Non mancano poi i casi in cui la fantascienza si fonde al fantastico e all’ orrorifico, benché quest’ ultimo intreccio in particolare non mi abbia mai entusiasmato...».

Il secondo romanzo di Giacomo;


Il giovane autore iniziò a scrivere intorno ai dodici anni, ma fu a partire dai quindici che si interessò più a fondo a sviluppare idee e metodo: «Era proprio il periodo in cui iniziai a leggere per passione, e il mio primo autore è stato il professor Herbert George Wells, che insieme a Jules Verne fu il pioniere della fantascienza. Il cuore fondamentale di questo genere narrativo mi parve chiaro fin da subito: la critica sociale e politica, talvolta mossa da sottile ironia, l’ anticipazione di possibili agitazioni sociali o conseguenze a catastrofi tecnologiche o naturali, le riflessioni sulla natura della realtà, del presente e della vita umana. Certo, la componente tecnica e scientifica, legata alla valutazione dell’ impatto che una scoperta o tecnologia potrebbe avere sulla società o un singolo, è molto forte, ma nella mia esperienza posso dire che è molto sbagliato identificare la fantascienza come un genere legato prettamente alla sfera scientifica e tecnologica del sapere, perché altrettanto importante è la sua componente umanistica.». Dai ventun anni ha passato molto tempo a buttare giù le idee che, anno dopo anno, avrebbero definito la sua direzione: «Dal 2015 a oggi ho pubblicato nove libri, sette dei quali di fantascienza. In essi ho voluto approfondire tematiche a me molto care come i viaggi nel tempo, le realtà alternative, le intelligenze artificiali, la vita aliena e l’ osservazione antropologica, le religioni ufolofiche e la religione nel mondo moderno. Nei testi che ho in previsione intendo invece trattare temi altrettanto notevoli come il ruolo dell’ interdipendenza in natura, con una certa attenzione al ruolo delle specie parassitarie, la predestinazione, il matriarcato, il significato dell’ essere umani e la perdita di umanità a seguito di uno sviluppo materiale incontrollato, e la possibilità di una civiltà intelligente apparsa sulla Terra prima di quella umana. Davvero molte idee, una più intrigante dell’ altra!».

L’ ultimo romanzo;


I sette libri di fantascienza di Giacomo sono stati tutti «entusiasmanti e impegnativi dalla progettazione al completamento». In essi non ha voluto lasciare nulla al caso, «ponendo attenzione ai dettagli e alla scelta delle singole parole»: «‘Cuore di droide’ e ‘Per i sentieri del tempo’ sono i primi due testi in assoluto a cui ho lavorato, pur pubblicandoli in ordine inverso. In essi ho affrontato temi tradizionali della fantascienza come le intelligenze artificiali, i viaggi nel tempo, l’ ecologia e il disastro nucleare, e li ho utilizzati come riflessione del significato dell’ umanità: essere umani è un modo di essere e sentire, si basa sulla libertà di essere sé stessi, senza imbrigliamenti, e tutto ciò che facciamo ha una precisa influenza sull’ ambiente che ci circonda e sul futuro. Lo sviluppo materiale deve essere costantemente al nostro servizio, e risultare sempre utile anziché superfluo: le macchine vanno bene purché mantengano una netta dipendenza nei nostri riguardi, quindi nessuna intelligenza artificiale! A ‘Per i sentieri del tempo’ in particolare ho dato due seguiti, ‘Al confine della realtà’ e ‘Percorsi di ascesa’, in cui rispettivamente tratto i temi del multiverso, un vero e proprio insieme di universi alternativi in cui coesistono infinite versioni diverse della storia, e del feudalesimo, un sistema oppressivo e macchinoso tenuto in piedi da intrighi e inganni intricati e pericolosi nei quali il raggiungimento di un sempre maggior potere è l’ apice dell’ ambizione, a danno del bene comune. Nel terzo e ultimo testo in particolare tocco i temi del transumanesimo postumanista, movimento culturale atto a liberare il genere umano da esperienze sgradevoli quali la malattia, la vecchiaia e la morte per mezzo della scienza e della tecnologia, non escludendo la trasformazione sia fisica che mentale delle persone in esseri non umani, per esempio organismi cibernetici, e della spiritualità, la continua ricerca atta a conoscere e approfondire l’ essenza del proprio spirito per mezzo di una costante attenzione e pratica meditativa. In ‘L’ angelo custode’ ho invece trattato il tema della morte e del ricordo delle persone care, a noi umani molto caro e valutato da alcuni esploratori alieni appartenenti ad una civiltà così antica ed avanzata per la quale si tratta di un tema assodato da lungo tempo, e vissuto senza più turbamenti. La conclusione che porto avanti in questa breve ma intensa narrazione è che quando qualcuno di importante ci lascia abbiamo il compito di ricordarlo fino alla fine dei nostri giorni. Tutti coloro che incontriamo, in quanto persone, sono realtà uniche e irripetibili, con pregi e difetti, che ci lasciano qualcosa da cui traiamo qualcosa di buono: genitori, nonni, amici e così via sono persone preziose la cui presenza ci cambia e neppure la morte può annullarne l’ influenza su di noi. Ricordarli con la mente e con il cuore è davvero una bella responsabilità!».

In tutta quest’ intensa produzione, due libri in particolare lo hanno coinvolto per impegno sia concettuale che emotivo: «Stiamo parlando di ‘Fantasma del passato’ e ‘Sotto il cielo della Porta divina’. La prima storia si basa sul celeberrimo e misterioso incidente di Roswell, avvenuto nel luglio 1947 e presto finito al centro di un animato dibattito ufologico e complottistico per il veloce e perentorio intervento da parte dei militari, che vi imposero un rigoroso segreto. Ne venni a conoscenza nel 1994, a dieci anni. Quel fatto mi colpì così tanto che per lungo tempo considerai l’ idea di trattarlo in ambito narrativo. Sostanzialmente in queste pagine parlo del tema dell’ antropologia, ossia lo studio di una cultura e dei limiti dell’ osservazione, che spesso altera ciò che si studia e quindi costringe ad agire di nascosto, del primo contatto con un genere alieno e anche delle religioni ufologiche, che dagli Anni Cinquanta ad oggi hanno raggiunto un peso sociale e culturale notevole in alternativa ai culti tradizionali con l’ aumento degli avvistamenti di UFO e di dichiarazioni di incontri ravvicinati nei quali si parla degli alieni come di figure spirituali elevate e venute a condividere con noi una nuova era spirituale. In ‘Sotto il cielo della Porta divina’, attualmente il mio ultimo romanzo, ho invece affrontato il tema della teocrazia e del lato dogmatico della religione. Da anni ripeto che con la rivoluzione scientifica iniziata nel Seicento la fede è entrata sempre più in crisi, in quanto i suoi dogmi dal Creazionismo alle vicende dell’ antico popolo ebraico così come sono riferiti nella Bibbia sono sempre più autorevolmente contestati dall’ analisi paleontologica e archeologica, ragion per cui oggi ciò che noi definiamo religione è sopravvissuto più che altro come tradizione, con un ordine sacerdotale che per secoli ha acquisito la custodia di un sistema di potere che per ovvie ragioni non vuole perdere.».

Insomma, per Giacomo la fantascienza è un genere molto potente con cui toccare l’ essenza dell’ umanità per mezzo di ciò che vive in un’ ambientazione quale lo spazio e il tempo, e che inventa, come la tecnologia e le scoperte scientifiche: «E’ uno dei generi più affascinanti e addirittura classici di sempre, perché i suoi concetti fondamentali poggiano su argomenti concreti come la nostra centralità e civiltà, e perché fin dall’ Ottocento ha costantemente saputo rimanere attuale, con una certa facilità.».

Gabriella Rosada, madre di Giacomo;


Ad un certo punto, però, ammette che il legame con la fantascienza ha anche un che di molto personale, di origine famigliare: «Quando ero ragazzino, mia madre, classe 1943, mi raccontò di quando durante gli Anni Cinquanta lei e mio zio, suo fratello maggiore di tre anni, andavano al cinema per vedere i primi film di fantascienza, ovviamente di produzione statunitense. In quel tempo vennero proiettate pellicole divenute classiche, e che io stesso a diciotto anni ho avuto la preziosa opportunità di vedere e apprezzare. Entrambi erano rimasti affascinati dall’ idea di viaggi nello spazio e nel tempo, alieni, futuri lontanissimi, androidi, vestigia di antiche civiltà perdute e così via discorrendo.». Sulle prime, come il resto del pubblico, i due giovani fratelli uscivano dalla sala cinematografica convinti che quanto visto sullo schermo fosse pura fantasia, destinato a rimanere tale: «In un film in particolare si parlava di un viaggio sulla luna, tema peraltro già toccato da Verne in uno dei suoi romanzi più noti. Tutti erano certissimi che fosse qualcosa di così irrealizzabile da non prendere sul serio l’ idea. Più tardi, però, vi fu la missione Apollo 11, che portò realmente i primi uomini sulla luna. In seguito si parlò di Marte ed esplorazione oltre i confini del nostro sistema solare, e mia madre non sottovalutò più il potere della narrativa fantascientifica.». Lei stessa era un personaggio fuori del comune, quando una cosa la colpiva riusciva a trasmettere la propria partecipazione. Era una persona molto singolare, che non amava essere imbrigliata negli schemi e combinava in sé il fascino che provava per la storia e le cose di una volta con la curiosità verso la modernità: si direbbe che la fantascienza fece presa su di lei perché vi riconosceva tutte queste cose. Mentre il suo interesse per la fantascienza aumentava, Giacomo stesso ha sempre posto una certa attenzione alle idee che negli anni si sono avverate dopo essere state anticipate dai romanzi e dai film: «Verne, Wells e Crichton, con le loro storie, e Gene Roddenberry con Star Trek, hanno anticipato indubbiamente molto di ciò che noi oggi diamo per scontato. Direi peraltro che hanno varato una forma diversa di dibattito, forse addirittura più coinvolgente ed entusiasmante di quello in forma abituale. La fantascienza si rivolge direttamente all’ essere umano, al tempo stesso suo protagonista e destinatario. Offre trame di interesse sia propriamente scientifico che sociale, scriverle e leggerle rappresenta un eccellente e interessante esercizio di riflessione. Ecco perché è fondamentale sapere di storia, scienza, costume e società ed attualità. Si può anche trattare di religione, come nel caso delle opere di ‘Dune’ di Frank Herbert, e io stesso l’ ho fatto con due testi.». Ma per lo scrittore vi è dell’ altro:

«La fantascienza è un genere che mi appassiona personalmente e che ho compreso alle basi e nelle sue ramificazioni fondamentali, o non avrei potuto dedicarmici attivamente in prima persona come autore. Al tempo stesso, è un modo per me di sentire ancora la presenza di mia madre, e l’ influsso che ha avuto sulla mia personalità e la mia preparazione culturale. Se quella lettura che feci a otto anni sulla mia antologia alle elementari mi colpì intellettivamente, l’ esperienza che mia madre in seguito divise con me fu il compimento più propriamente emotivo. Ecco perché dico sempre che la fantascienza è il mio genere del cuore: da un lato perché il legame che mi ci lega ha un’ origine vissuta nella mia casa, e dall’ altro perché è un genere che mi consente piena libertà e profondità di trattare tematiche umane vaste e concrete con cui noi tutti facciamo abitualmente i conti.».

Giacomo Ramella Pralungo ai funerali di Vittorio Emanuele, ultimo erede al trono d’ Italia

Il feretro di Vittorio Emanuele condotto in Duomo; In virtù di problemi tecnici dei giorni scorsi, e scusandoci per il ritardo, pubblichia...