Il 21 maggio 2005 a Nuova Delhi fu istituita dall’ Organizzazione delle Nazioni Unite la Giornata Internazionale del Tè, nel desiderio di richiamare l’ attenzione sulle condizioni dei lavoratori nelle piantagioni di camellia sinensis, da cui la nota bevanda viene ricavata. Il tè è importante non solo come materia prima, ma anche come patrimonio e principale mezzo di sussistenza dei piccoli produttori. E’ peraltro la bevanda più consumata al mondo dopo l’ acqua: in Oriente, ove se ne concentra la produzione soprattutto nelle zone tropicali e subtropicali, è al centro di un antico e affascinante rituale sociale e spirituale, in Giappone chiamato Cha no yu. In Occidente si sta ritagliando un sempre maggiore spazio, tra aumento dei consumi, sale da tè specializzate e corsi dedicati, tanto che in Italia c’ è persino chi la produce, come Marco Bertona e il suo Tè Bianco del Verbano. Nella cultura occidentale si è persino ritagliata un grande spazio nella letteratura, nei grandi romanzi realisti specialmente. Giacomo Ramella Pralungo, autore di fantascienza e articolista di temi storici e culturali, ne è notoriamente un estimatore, e non ha mancato l’ occasione di riflettere sul senso e l’ apprezzamento di cui il tè gode.
Il tè del tatdo pomeriggio di Giacomo; |
Giacomo
ci guida tutto contento in salotto, ove il tè è servito: «Bevanda meno
arrogante del vino, non egocentrica quanto il caffè e non così innocua quanto
il cacao, il tè è originario della Cina meridionale. La ricorrenza di oggi
vuole essere un modo per sottolineare il suo ruolo nello sviluppo sostenibile e
nella conservazione della biodiversità, con una certa attenzione al sostegno
dei piccoli produttori e ai possibili vantaggi per tutti, dal campo alla tazza.
La sua produzione e lavorazione costituiscono i principali mezzi di sussistenza
per milioni di famiglie nei Paesi in via di sviluppo, ma a dispetto del suo
contributo necessario allo sviluppo rurale, alla lotta alla povertà, alla
conservazione della biodiversità e alla nutrizione, il suo settore rimane
esposto a una serie di sfide come l’ impatto di condizioni climatiche avverse,
l’ accesso ai mercati per i piccoli produttori, la mancanza di trasparenza e la
sostenibilità della catena del valore del tè.». Sorseggia lui stesso un po’ di
tè, domandando se abbiamo mai visto una piantagione di tè a terrazze: «Io amo
osservarne le fotografie, e un giorno vorrei tanto visitarne una di persona. Il
verde ovunque, l’ infinita ripetizione di linee serpeggianti che delimitano i
gradini ricoperti di camellia sinensis, la sensazione che il mondo inizi e
termini lì, l’ assenza di orizzonti che non siano altre montagne ricoperte di
tè: forse è da questo che deriva la meditazione, l’ elevazione dell’ io oppure
dello spirito, ammesso che siano due cose distinte, e la riconquista del
gioiello della vita. Tutte cose a noi lontanissime, eppure reali e presenti.».
La camellia sinensis era ben nota fin dall’ antichità nella botanica e nella
medicina, e le si attribuivano importanti proprietà terapeutiche come quella di
offrire sollievo alla fatica, allietare l’ animo, rafforzare la volontà e
guarire problemi di vista. Talvolta le sue foglie venivano somministrate per
uso esterno, sotto forma di impacchi, per alleviare dolori di origine
reumatica. In ambiente religioso, ove trovò una funzione tuttora portata avanti
soprattutto nei monasteri buddhisti cinesi e giapponesi, le foglie della sua
pianta venivano considerate un ingrediente fondamentale di quell’ elisir di
lunga vita invano bramato dai maestri taoisti. Durante la metà del Cinquecento,
i primi missionari cristiani, i gesuiti, arrivarono in Giappone e provarono da
subito una forte ammirazione per la pratica del tè, che fece il suo ingresso in
Europa attorno alla metà del Seicento e divenendo apprezzato su vasta scala,
anche popolare, durante l’ Ottocento, durante il regno di Vittoria del Regno
Unito, prima Imperatrice d’ India.
Alla domanda su come abbia scoperto il tè, lo scrittore risponde che fu all’ età di otto o nove anni, quando alle 16:00 sua madre glielo preparava per merenda con qualche biscotto: «Quest’ abitudine non durò particolarmente a lungo, ma fu allora che mi accorsi che mi piaceva. Nel 2006, a ventidue anni, mi trasferì in Ghana, Africa occidentale, ove vissi per i successivi quindi anni e in quel periodo presi la consuetudine di berlo ogni giorno. Usanza che preservo tuttora. Mi piace addolcirlo soprattutto con lo zucchero di canna oppure con il miele. A poca distanza da casa mia vi è un apiario che mi piace osservare durante le mie passeggiate, e trovo che le api ci facciano davvero un grandissimo dono con la loro proverbiale operosità!». Gli chiediamo qual’ è il tè che ama di più, e lui cita il Darjeeling, l’ Earl Grey, il Prince of Wales e il tè verde: «Il tè Darjeeling, originario del Bengala occidentale, è tradizionalmente considerato il più pregiato dei tè neri, soprattutto in Gran Bretagna e nelle sue ex colonie. L’ Earl Grey è una miscela realizzata con i migliori tè neri provenienti da piantagioni selezionate in tutto il mondo e aromatizzata con l’ olio estratto dalla scorza del bergamotto. Il tè Prince of Wales Tea, dedicato a Re Edoardo VIII del Regno Unito nel 1921, quando ancora era erede al trono come Principe di Galles, è realizzato con i più pregiati tè neri provenienti dalle province della Cina centrale e meridionale, ha un profumo intenso e un sapore leggero e delicato, in cui si percepiscono note fruttate e un lieve sentore di cacao. Il tè verde è invece una variante ottenuta con foglie che durante la lavorazione non subiscono l’ ossidazione, e per tradizione è considerato in grado di apportare i migliori benefici alla nostra salute.». Che cosa lo affascina di più del tè, a parte il sapore? «Thích Nhất Hạnh, monaco buddhista e poeta vietnamita venuto a mancare il 21 gennaio 2022, disse che bevendo il tè si bevono nuvole.» risponde «Vale a dire che tutto è in relazione con tutto, ogni cosa è dipendente dalle condizioni causanti. Una tazza di tè che arriva sul nostro tavolo e che noi beviamo dipende da una serie di fattori concomitanti: una pianta, la terra, la pioggia e il sole, un agricoltore che coltiva la piantagione, un certo tempo per permettere alle foglie di crescere e maturare, qualcuno che le raccoglie, qualcun altro che le fa essiccare, appassire, ossidare, ammassare, fermentare e maturare per poi impacchettarle e portarle al mercato, qualcuno che prima di noi non compra il pacchetto, e noi che arriviamo dopo e lo scegliamo. Ciascuna di queste condizioni è a sua volta determinata da numerose altre che la precedono, e determineranno le infinite altre che la seguiranno. Peraltro, secondo il Buddhismo, come ogni altra cosa il tè è tale per differenza da tutto ciò che non è tè. Non è tè o altro, ma perché noi da un lato lo mettiamo in relazione al nostro concetto di tè e dall’ altro al nostro concetto di non tè. Dunque, tutto è una relazione, nella quale noi controlliamo ben poche cose!». Secondo la filosofia Zen, prosegue, per godersi a dovere il tè bisogna essere calati nel presente. Solo nella consapevolezza del presente le mani possono sentire il piacevole calore della tazza, assaporare l’ aroma, sentire la dolcezza e apprezzare la delicatezza: «Se sei preso dal passato o dal futuro, perdi del tutto il piacere del tè. Anzi, guaderai nella tazza e il tè non ci sarà neanche più. Con la vita vale lo stesso identico principio.».
Con
questo spirito, prosegue dicendo che ama molto i prodotti della Dilmah, una
delle aziende di tè più importanti al mondo il cui amministratore delegato, Dilhan
Fernando, intende una ditta come servizio umano, puntando su un commercio etico
che sostenga l’ economia e l’ agricoltura locali: poiché ogni azienda di
successo ha un’ influenza sulla comunità dove opera, sui suoi clienti e sull’
ambiente, il suo lavoro deve cercare di cambiare in meglio le vite umane.
Dopo
qualche istante di silenzio, aggiunge che questa bevanda si è ritagliata un
notevole spazio nella letteratura, soprattutto nei grandi romanzi realisti, ma
non solo: «Il momento in cui si beve il tè assume un significato culturale e
simbolico nello stesso tempo. Fin dall’ inizio del Novecento rappresenta un
rito così importante da consacrare un intero momento della giornata come l’ ora del tè. Un rito di certo non
legato a un momento di meditazione e di ricerca individuale come in Cina e
Giappone, bensì a un momento in cui si esprimono abitudini e costumi di
società.». All’ interno delle opere della letteratura classica ci sono numerosi
riferimenti a questa bevanda, che assume valore sempre diverso. E’ sinonimo di
intensità, piacere, tradizione e condivisione.
Alla
combinazione di tè e letteratura si è dedicata Eileen Reynolds in un articolo
intitolato «Tea: a Literary Tour» e pubblicato nel 2010 sul The New Yorker. Nella
letteratura britannica il tè è l’attore non protagonista più ricorrente se si
pensa, ad esempio, ai romanzi delle sorelle Brontë, di Charles Dickens o Jane
Austen. Talmente frequenti sono i riferimenti nelle scene di quest’ ultima
autrice, che Kim Wilson ha pubblicato un libro al riguardo, «Tea with Jane
Austen». L’ opera in cui l’ ora del tè assume il ruolo più iconico e memorabile
è il romanzo fantastico «Alice nel Paese delle Meraviglie» di Lewis Carroll. Al
di là dell’ impiego letterario, cvi fu un autore britannico per cui il tè era
una vera e propria cerimonia, un insostituibile rito quotidiano: il giornalista
e attivista politico George Orwell, noto per i romanzi «1984» e «La fattoria
degli animali». Nel 1946 pubblicò un articolo, intitolato «A nice cup of tea»,
in cui descrisse la sua personale ricetta per una tazza di tè perfetta,
articolata in non meno di undici punti essenziali.
«Eppure,
non si può parlare del tè senza pensare alla famosa cerimonia di cui è oggetto
in vari Paesi asiatici, soprattutto il Giappone.» prosegue Giacomo finendo di
bere «E’ al centro di una vera e propria attività culturale, un rito in cui
attraverso forme e gesti ben precisi in cui la bevanda si prepara e si degusta,
accompagnando il processo a pratiche meditative e spesso religiose. Le cerimonie
del tè differiscono da Paese a Paese per norme, metodi e principi. Indica il
processo di preparazione, presentazione e degustazione del tè ruotanti
saldamente attorno ai valori di rispetto, armonia, purezza e tranquillità che avvolgono
tutto il rituale, dal rapporto tra coloro che prendono parte alla cerimonia a
quello con gli accessori che servono alla preparazione, e infine a quello con
il cibo che viene consumato.». Nel Buddhismo Zen, la forma più famosa per
eccellenza del Buddhadharma giapponese, si dice che si può incontrare un intero
universo bevendo una tazza di tè: questo avviene con l’ immersione totale nel
qui ed ora e partecipando del tutto alla cerimonia con un cuore libero da
sentimenti di egoismo. Si dice, peraltro, che il tè è il tè e lo Zen è lo Zen,
sebbene appassionati di tè e seguaci dello Zen siano interessati sia all’ uno
che all’ altro. I monaci Zen giapponesi vedono il tè come un ottimo strumento
capace di tenere desta la mente e quindi di prolungare la meditazione. Si
racconta persino che il monaco indiano Bodhidharma, XXVIII patriarca del
Buddhismo indiano secondo la tradizione Chán e Zen che raggiunse la Cina nel
526 dopo Cristo, mentre sedeva in meditazione fu colto dal sonno e al suo
risveglio si tagliò le palpebre che caddero a terra, misero radici e
germogliarono: la pianta che crebbe da esse fu la prima del tè, simbolo e causa
dell’ eterna insonnia. Sempre nel Buddhismo Zen, la tazza di tè viene
utilizzata come parabola. Nan-in, un maestro giapponese del Perido Meiji, tra
il 1868 e il 1912, ricevette la visita di un professore universitario
statunitense che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen, e appena
ricevuto gli pose numerose domande, una dopo l’ altra. Nan-in servì il tè in
rigoroso silenzio, colmò la tazza del suo ospite continuando però a versare. Il
professore guardò meravigliato il tè che traboccava, poi non riuscì più a
contenersi dicendogli che era già piena. Nan-in, sorridendo, rispose
benevolmente ma fermamente che esattamente come quella tazza il professore era
ricolmo delle sue opinioni e congetture: gli sarebbe stato impossibile spiegargli
lo Zen se prima non avesse vuotato la propria tazza. Siamo infatti abituati a
guardare il mondo non con i nostri reali occhi, ma con l’ occhio della
convinzione che ci siamo costruiti negli anni.
Un apiario nella zona dove Giacomo vive; |
Recenti
studi scientifici hanno inoltre evidenziato che l’ abituale consumo di tè porta
enormi benefici alla salute, che Giacomo ha valutato attentamente: «E’ ricco di
antiossidanti in grado di contrastare i radicali liberi responsabili dell’ invecchiamento
e fondamentali nella prevenzione di alcune malattie cardiovascolari. E’ una
bevanda infinitamente preziosa per la nostra salute. Studi sempre più
aggiornati dimostrano ormai in modo inequivocabile che, specie quello verde,
riduce pressione e colesterolo, diminuisce il rischio di ictus, previene alcuni
tumori come ad esempio quello al colon. Inoltre aiuta la digestione e rafforza
i denti. In una parola, come dicono i cinesi: il tè allunga la vita. Uno dei
modi migliori per beneficiare al meglio delle sue proprietà è addolcire la
tazza con il miele, più naturale e senza controindicazioni, piuttosto che con
lo zucchero. La dose raccomandata per avere i massimi benefici è di tre tazze
al giorno, possibilmente a digiuno: l’ efficacia è assai maggiore.». Peraltro,
aggiunge, uno studio pubblicato sulla rivista Aging suggerisce che sorseggiare
una tazza di tè in modo regolare potrebbe avere effetti benefici sulla
struttura del nostro cervello: «L’ indagine, a cura di una squadra internazionale,
si è avvalsa di un gruppo di volontari le cui abitudini sono state inizialmente
valutate tramite un questionario. Una volta divisi i bevitori regolari di tè
dai non regolari e dai non consumatori, tutti i partecipanti sono stati
sottoposti a risonanza magnetica, per documentare eventuali differenze all’ interno
della scatola cranica. Si è così scoperto che gli amanti del tè possono contare
su una minore asimmetria nelle connessioni presenti nei due emisferi del
cervello. Le reti neurali sono sviluppate in modo piuttosto simile su entrambi
i lati, con l’ ulteriore evidenza di connessioni robuste nelle aree del
cervello coinvolte nei processi di pianificazione e relazionali. Si può quindi
azzardare l’ ipotesi che l’ ottimizzazione delle strutture cerebrali innescata
dal tè renda il cervello più efficiente, e ne rallenti pure il deterioramento. Alcuni
esperti osservano inoltre che la propensione a consumare molta teina potrebbe
andare a braccetto con altri fattori in grado di influenzare la salute dei
neuroni: ad esempio, le persone socievoli potrebbero passare l’ ora del tè in
compagnia amici e parenti, cosa che influenzerebbe già da sé e ampiamente in
positivo l’ impalcatura del cervello.».
Chiediamo
a Giacomo se c’ è una forma di tè che vorrebbe provare, e lui ridacchiando
risponde prontamente: «Il tè tibetano. E’ molto lontano dal classico tè indiano
o cinese. Si tratta infatti di una miscela di foglie di tè con sale,
bicarbonato e burro di yak, il famoso bovino tibetano simile ad un grosso toro
ma con pelo più folto e lungo. Il tutto è mescolato in un cilindro di legno.
Non importa dove si è diretti: in Tibet ci sarà sempre una tazza bollente ad
accogliere l’ ospite come segno di benvenuto, un compagno amichevole per nomadi
e viaggiatori.». Parlando di tè, il burro non è la prima cosa che viene in
mente agli occidentali, ma i tibetani amano aggiungerne in buone dosi, perché
l’ alto contenuto di grassi è perfetto per la vita in alta quota e per
contrastare il freddo dell’ altopiano himalayano, tra i quattro e i cinquemila
metri di quota. Secondo la tradizione, ci racconta lo scrittore, gli ospiti non
devono mai bere tutto il tè dalla tazza, dovendo lasciarne un po’ per far
capire al padrone di casa che ne desidera ancora. Quando non se ne vuole più,
si può versare il tè rimasto in una coppa apposita sul pavimento, ma mai prima
della terza o quarta tazza, per non apparire scortesi: «Alcuni conoscenti che
nel gennaio 2011 incontrai all’ Istituto Lama Tzong Khapa, in provincia di
Pisa, dopo un loro viaggio tra India del nord e Nepal, ove vissero con molti
tibetani, mi dissero che per la bocca di un occidentale il tè tibetano risulta
disgustoso. Eppure, i tibetani arrivano a berne dalle quaranta alle sessanta
piccole tazze al giorno, per la nutrizione e l’ idratazione, dopo i pasti,
durante le preghiere o semplicemente durante le conversazioni tra amici e
familiari.».
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