giovedì 17 marzo 2022

17 marzo 2022, i centosessantuno anni di una nazione


Il 17 marzo in Italia si celebra la Giornata dell’ Unità nazionale, della Costituzione, dell’ Inno e della Bandiera. E’ una ricorrenza molto importante, che onora la nascita dello Stato in seguito alla proclamazione del Regno d’ Italia nel 1861. La sua istituzione fu approvata in maniera definitiva con la Legge 222 del 23 novembre 2012. Pur rimanendo un giorno lavorativo, essa viene considerata come «giornata promuovente i valori legati all’ identità nazionale».

Quanto segue è una lettera scritta da Giacomo Ramella Pralungo, autore di libri di narrativa e articoli storici. Di orientamento monarchico e convinto sostenitore del ramo dei Savoia-Aosta, che attualmente fa capo al Principe Aimone, responsabile per la Federazione russa di Pirelli Tyre, di cui è vicepresidente, e ambasciatore dell’ Ordine di Malta presso la stessa nazione, lo scrittore sostiene da anni che il valore storico e simbolico di questo giorno sia una valida occasione di riflessione sui valori di cittadinanza e, soprattutto, di identità nazionale, sulla quale il popolo italiano pare tuttora seriamente discorde.

La proclamazione del Regno italiano;


Il 17 marzo 1861, il Parlamento del Regno di Sardegna proclamò la nascita del Regno d’ Italia con la Legge 4671, presentata in Senato dal Conte Camillo Benso di Cavour, allora Presidente del Consiglio dei ministri, e che dal successivo 21 aprile divenne la prima del nuovo Stato: Vittorio Emanuele II di Savoia assumeva quindi per sé e per i propri discendenti e successori il titolo di Re d’ Italia. Quarantesimo signore della sua Casa, il Re galantuomo, così chiamato perché una volta salito al trono non revocò lo Statuto Albertino promulgato dal padre e predecessore Carlo Alberto, accettando il sistema costituzionale pur essendo di idee reazionarie e rispettando le decisioni dei suoi ministri anche quando non concordava, scelse di conservare in segno di continuità dinastica il numerale «secondo», analogamente a Ivan IV Vasilyevich, noto come il Terribile, Gran Principe di Mosca che nel 1547 assunse per primo il titolo di Zar di tutte le Russie, e ai monarchi britannici, che preservarono lo stesso numerale in vigore dai tempi del Regno d’ Inghilterra. All’ unità d’ Italia, suddivisa in undici compartimenti territoriali, cinquantanove province, centonovantatré circondari e settemilasettecentoventi comuni, mancavano ancora Veneto, Trentino-Alto Adige, il Friuli-Venezia Giulia, Istria, Trieste e Lazio, che vennero gradualmente annessi nel 1866 e nel 1870, quando Roma, epicentro naturale del neonato Stato, venne espugnata dopo la famosa breccia di Porta Pia divenendo capitale l’ anno seguente, dopo Torino e Firenze. Nel 1918 fu la volta del Trentino-Alto Adige, acquisito dal decaduto Impero austroungarico. L’ ex Regno delle Due Sicilie era stato annesso nel 1860 a seguito della Spedizione dei Mille, composta dai celebri volontari al comando di Giuseppe Garibaldi, partiti nella notte tra il 5 e il 6 maggio dai pressi di Genova alla volta della Sicilia.

La riunificazione d’ Italia, avvenuta a ben quattordici secoli dalla caduta di Roma nell’ anno 476, è un valore al cento percento positivo e magnifico, noi tutti dovremmo essere infinitamente grati a grandi personaggi quali Giuseppe Mazzini, Re Vittorio Emanuele II, il Conte di Cavour e Giuseppe Garibaldi, senza dimenticare quella grande schiera di persone che operarono anonimamente e silenziosamente dietro le quinte senza mai ottenere il giusto tributo dalla Storia, per essere scesi in campo in tempi e modi differenti al fine di lasciarci in eredità un Paese libero e unito. Eppure, in quale modo quest’ unità venne raggiunta? E quali conseguenze ebbe? Nel 1961, in occasione del primo centenario dell’ unità, lo storico Ernesto Ragionieri rifletteva se il Risorgimento fosse veramente finito. Oggi, a centosessantuno anni da quella storica seduta parlamentare, l’ impressione è che sia ancora in pieno svolgimento, dovendo assicurare difficili ma importanti obiettivi quali la costruzione dell’ identità nazionale, la memoria e persino l’ imposizione di una politica efficace e senza tanti sproloqui. Peraltro, a prescindere dalla propaganda dell’ epoca e degli anni immediatamente successivi, esposta in modo abbellito e pomposo, l’ unità nazionale non venne fatta completamente bene, e nemmeno a furor di popolo: fu piuttosto un’ operazione di vertice dettata dalle esigenze della nascente borghesia, che oltre mezzo secolo prima era stata la vera vincitrice della cruenta Rivoluzione francese, di avere un mercato unico senza il quale l’ economia non sarebbe decollata. In molti vi videro il carattere annessionistico del casato sabaudo, nient’ altro che un allargamento degli antichi confini, «una conquista regia» come polemicamente si sarebbe detto in seguito. L’ Italia è un Paese notoriamente frammentato su tutti i fronti, perché da sempre è frammentata la sua storia: gli italiani non sono come i francesi che, dopo regni, rivoluzioni, imperi e repubbliche, si sentono un’ unica realtà al punto che l’ architettura e la lingua sono le stesse anche in regioni come la Rhône-Alpes e la Normandia, che nel Medioevo erano del tutto estranee, e hanno da tempo perduto l’ uso dei dialetti. Abbiamo alle spalle profonde differenze sociali, politiche e di cultura che ci hanno portato ad un marcato campanilismo e a un Risorgimento guidato tra mille difficoltà, pagine oscure e sbagli, per quanto alla fine si rivelò un fatto positivo che pose il Belpaese sotto l’ attenzione di tutti, specialmente in Europa, ove per la prima volta fu considerato persino con stupore e ammirazione. La realtà politica della penisola prerisorgimentale era intricata, un vero e proprio mosaico in cui regnavano molte grandi Case dalla linea di sangue di tutto rispetto come gli Asburgo d’ Austria, i Borbone-Parma, gli Asburgo-Este, gli Asburgo-Lorena e i Borbone delle Due Sicilie, in una situazione in cui tutte avrebbero potuto cogliere l’ opportunità di conseguire l’ unità sotto la propria Corona, ma alla fine rimasero soggette agli interessi delle potenze straniere e prive di iniziativa, quindi la storia si compì per mezzo dei Savoia, antichi signori feudali alpini di discendenza francese, in origine conti di Moriana e delle vie di Francia che transitavano per il Moncenisio e il San Bernardo, poi duchi di Savoia e signori delle terre tra il Rodano e il Po, e dal Settecento sovrani di Sardegna, che per secoli avevano resistito alle ambizioni di vicini assai più potenti, come francesi e austriaci, grazie ad una politica estera, dinastica e matrimoniale spesso spregiudicata, muovendosi tra rischi, divisioni interne e alleanze sorprendenti ricorrendo ai propri eserciti, statisti, ambasciatori e agenti segreti.

Una pubblicazione del 1961;


L’ Italia è una nazione contorta, e venne al mondo dopo un parto molto difficile. La tradizione attribuisce la paternità del Risorgimento al Conte di Cavour, con la sua genialità politica e diplomatica, ai limiti dell’ intrigo; al repubblicano Giuseppe Mazzini, con il vigore del suo idealismo; all’ anticlericale Giuseppe Garibaldi, con il suo carisma di condottiero militare e capopopolo; e a Vittorio Emanuele II, che con il suo realismo politico rinunciò all’ assolutismo a cui era fermamente orientato confermando quel sistema costituzionale che aveva consentito la formazione di una classe politica di levatura che negli altri regni italiani rimasti assoluti non si era invece imposta, e che con le sue maniere da popolano colpì la sensibilità della sudditanza italiana, da nord a sud, funzionando splendidamente come immagine dell’ unità nazionale equanime, al di sopra delle parti.​

Eppure, dietro la rappresentazione patriottica vi fu un articolato processo di trasformazione politica e sociale nel quale il ruolo di questi grandi protagonisti e il loro reciproco rapporto furono ben più complessi e meno ovvi. Tanto per cominciare, l’ unità culminata il 17 marzo 1861 zampillò come già affermato da una scelta promossa dalle classi sociali più elevate e da un antico disegno di espansione dinastica, come suggerito ad esempio dal titolo del Re, che volle continuare a chiamarsi Vittorio Emanuele II: l’ esigenza di avere un Paese unico e indipendente nacque dall’ intesa tra il ceto emergente della borghesia, forte delle professioni in ogni campo, dall’ agricoltura alla finanzia, di cui Cavour, detto il Tessitore per la capacità che ebbe nell’ unire l’ Italia, come tramando una tela, anche tramite astuzie e macchinazioni, fu un ben noto esponente, e la vecchia aristocrazia, seppur non del tutto convinta, per la quale la coscienza nazionale avanzava su precisi interessi politici ed economici: bisognava andare oltre l’ ormai antiquata condizione dello Stato patrimoniale, demanio cioè delle dinastie regnanti per diritto divino, dando vita ad un più ampio mercato nazionale in cui sviluppare le attività produttive e commerciali, accedendo ad un ruolo di classe dirigente politica e confermando il passaggio all’ assetto costituzionale e parlamentare. Vittorio Emanuele partecipò in prima persona a quest’ intesa, convinto che la Corona impersonasse il ruolo dominante dell’ aristocrazia, e che i ceti emergenti avessero bisogno della copertura reale per affermarsi: la borghesia puntava quindi ad uno Stato nazionale che rispondesse ai suoi interessi, e la Monarchia la aiutava a realizzarlo e si prestava a presiederlo. Il merito del sovrano sabaudo fu di essere il solo regnante italiano a capire che il processo costituzionale era irreversibile e occorreva adeguarvisi per sopravvivere incoraggiando poi forze sociali vive. La prospettiva nazionale avrebbe premiato le secolari ambizioni espansionistiche di una Casa che da otto secoli lottava per sopravvivere in un angolo d’ Europa molto difficile. Nei ventidue anni dall’ esplosione rivoluzionaria del 1848 alla breccia di Porta Pia del 1870, il Risorgimento procedette tra episodi gloriosi come la battaglia di Solferino e San Martino, la più grande dopo quella di Lipsia del 1813 e che per perdite superò quella di Waterloo, e l’ incontro di Teano, ma anche attraverso episodi meno romantici quali il bombardamento di Genova nel 1849, i plebisciti combinati per le annessioni dell’ Italia centrale, le agitazioni manovrate da carabinieri infiltrati, la corruzione e gli appoggi malavitosi alla marcia trionfale di Garibaldi in Meridione, l’ aspra repressione del brigantaggio e le leggi anticattoliche. Addirittura, gli accordi verbali segreti stretti tra il Conte di Cavour e l’ Imperatore Napoleone III dei francesi nella cittadina termale di Plombières non prevedevano neppure che tutta la penisola fosse unificata sotto la Corona sabauda: ai Savoia sarebbe infatti toccato il Settentrione, mentre un regno nel Centro, escluso il Lazio che sarebbe rimasto entro i confini dello Stato Pontificio, e un altro in Meridione sarebbero stati retti da due cugini del sovrano francese, ossia Gerolamo Bonaparte, consorte della principessa Maria Clotilde, primogenita di Vittorio Emanuele II, e Luciano Murat, figlio del più noto Gioacchino. Per volere del Tessitore, il Re Galantuomo fu costretto, e assai a malincuore, a cedere alla Francia imperiale Nizza e, soprattutto, la Savoia, quella regione storica nei pressi delle Alpi Occidentali che alla fine del X secolo era stata culla della sua Casa, ponendo il confine sul crinale alpino, secondo la linea delle «frontiere naturali».

Casa Savoia in epoca risorgimentale;


Oltre all’ indubbio e grande merito di averci consegnato un Paese, l’ unità ebbe molte conseguenze poco rosee: il neonato Regno si presentò sulla scena europea come ultima tra le maggiori potenze e prima tra le minori; era socialmente arretrato; in politica estera doveva risolvere le questioni territoriali con l’ Austria imperiale e il papato, mentre in quella interna doveva mutare in un’ unica realtà tante regioni molto diverse per consuetudini amministrative, economiche e sociali. Si dovevano unire codici, bilanci e forze armate con un sistema generale, stabilire una politica economica e una direzione governativa precise oltre che valide alleanze. Questa complessa opera di costruzione fu attuata con metodi spesso brutali, anche se in modo fluente e saldo nei diciassette anni di regno di Vittorio Emanuele, innanzitutto tramite un rigoroso e oppressivo accentramento da parte dei suoi dodici Presidenti del Consiglio dei ministri. La piemontesizzazione dell’ Italia fu una soluzione all’ esigenza di unire politicamente un sistema, ma poi non lasciò spazio alla decentralizzazione a beneficio delle varie realtà territoriali. La centralizzazione politica e l’ estensione delle stesse leggi e sistemi amministrativi si accompagnarono alla negazione di una politica riformista e democratica, temuta per le possibili ripercussioni sociali, oltre che ad una dura repressione che per esempio vide l’ esercito impegnato contro il brigantaggio nel Meridione e le manifestazioni del nascente movimento operaio. Alla depressione economica, all’ alta natalità e mortalità e all’ analfabetismo dovuto alla scarsezza di strutture e dell’ obbligo scolastico si aggiungeva una profonda divisione tra il Settentrione, industrializzato e scolarizzato, e il Meridione, privo di risorse, strutture finanziarie e infrastrutture, quindi arretrato al punto di essere rimasto fermo al latifondismo. L’ Italia postrisorgimentale, monarchica e di destra, era percepita in modo diverso dagli italiani: per alcuni era meravigliosa e aveva tante belle speranze, tra la creazione di infrastrutture e la conquista coloniale, ma per altri era orrenda, retta da una caotica classe politica che negava le libertà fondamentali, retta con una gran retorica e in mezzo a intrighi, scandali elettorali, bancari e tante piccole miserie che non avevano più nulla a che fare con il patriottismo delle eroiche lotte delle guerre d’ indipendenza, con i contadini e i poveri che morivano negli stenti peggiori.

Altri problemi nascevano dalla mancata unità linguistica e dalle regioni ancora escluse dai confini nazionali: non si scelse mai uno Stato federale, permettendo la progressiva integrazione dei sistemi locali, soprattutto a causa dell’ incertezza delle basi unitarie e alla presenza di svariate potenze che volevano ristabilire le condizioni precedenti, soprattutto l’ Austria del Kaiser Franz Joseph I. Se l’ Italia esisteva da secoli come civiltà e culla di arte e letteratura, continuava a penare sul piano statale e, ahinoi, le celebri parole attribuite a Massimo d’ Azeglio poco dopo il 1861 suonano ancora oggi come un’ amara e innegabile verità: «Purtroppo s’ è fatta l’ Italia, ma non si fanno gli italiani.». Si narra che persino Cavour morì sussurrando: «L’ Italia è fatta.», pur temendo che non fosse proprio così…

Re Vittorio Emanuele e Cavour;


La giornata di oggi dovrebbe essere un’ ottima occasione per riflettere su noi stessi come popolo e nazione. Attualmente, la crisi italiana si è molto aggravata, e lo si vede ovunque. Vi è una forte decadenza non politica ma di sistema, l’ attuale Repubblica pare come una supernova, pronta a implodere per un ristagno che non si risolve neanche con le elezioni. Peraltro, il 17 marzo è stato festeggiato solamente nel 1911, nel 1961 e nel 2011, rispettivamente in occasione del cinquantenario, del centenario e del centocinquantenario dall’ unità. Solo nel 2012 fu proclamato festa nazionale, eppure continua a non godere dello stesso risalto attribuito al 25 aprile che, peraltro, da festa nazionale è degenerato in una vera e propria celebrazione politica tanto cara agli ambienti della sinistra, che sfila cantando «Bella ciao» all’ ombra della bandiera rossa anziché l’ Inno di Mameli ai piedi del Tricolore: non è assurdo festeggiare la liberazione di un Paese di cui invece mai si onora la proclamazione? Questo anniversario dovrebbe avere un’ importanza analoga al 4 luglio statunitense, giorno dell’ Indipendenza dal Regno di Gran Bretagna, e del 14 luglio francese, Festa della Federazione parigina del 1790, i cui partecipanti giurano fedeltà alla Nazione, alla Legge e al Re.

Noi italiani abbiamo sempre avuto scarso o nullo senso della storia, e oggi ci presentiamo come un popolo senza gloria e memoria, che si nutre allegramente di ideologia e settarismo senza curarsi della realtà dei fatti e della nostra comune eredità. Addirittura, pare che il Paese sia nato soltanto il 2 giugno 1946, a seguito di quel controverso referendum a cui neppure si votò in tutta quanta la nazione, con ben tre milioni di italiani esclusi dal suffragio, e il cui spoglio delle schede e annuncio dell’ esito furono gestiti in maniera così incerta e pasticciata da far parlare fin da subito di brogli, esibendo ancora una volta un’ Italia divisa tra Settentrione e Meridione. Siamo una nazione impossibile e macchinosa, ben ardua da gestire, in cui prevale la cultura del «contro» e del «no», e alla lotta per migliorare le cose si è sostituita quella più facile del non fare, tanto che se oggi un incosciente volesse provare a cambiare le cose verrebbe frenato in partenza: in Italia ha più senso cambiare tutto per non cambiare niente, in un puro gattopardismo. Nel Belpaese montano in sella uno dopo l’ altro i moderni soloni, maestri di pensiero che vantano il monopolio delle soluzioni a situazioni difficili o compromesse e che blaterano sulla scarsa cultura del popolo, mentre sindacati contrari a priori istigano ad eterni scioperi e proteste in piazza contro le vane promesse dei padroni, e la cittadinanza accetta passivamente tutto ciò limitandosi a lamentare la situazione con gli amici al bar bevendo caffè o birra. La frustrazione collettiva e la sfiducia verso la pubblica amministrazione sono a livelli vertiginosi, condite da una burocrazia che porta acqua ai mulini dei potentati e da un intricato groviglio di leggi che mina la funzionalità dello Stato e incatena la società civile. La Repubblica venne edificata in nome di ideali quali libertà, solidarietà e uguaglianza, tanto che Pietro Nenni disse: «O la Repubblica o il caos.». Oggi, curiosamente, abbiamo sia la Repubblica che il caos, e nessuno dei suoi valori fondanti è garantito a dovere!  L’ Italia è pericolosamente impantanata nella palude delle sue contraddizioni e dell’ inefficienza, con una classe politica ai limiti del farsesco che anziché il prodotto interno lordo ha aumentato il debito pubblico! La Repubblica ha innegabilmente fallito la sua missione, non ha saputo rispondere ai bisogni essenziali del nostro popolo e neppure assicurare la democrazia a cui teneva tanto.

Forse la causa fondamentale di questa decadenza e la conseguente ascesa di delegati avidi e litigiosi, nessuno dei quali interessato al bene comune e in grado di vantare una vera preparazione sia culturale che civica, è la sua mancanza di simboli e valori forti nei quali la gente possa riconoscersi, che invece in una Monarchia sono fortemente presenti. Il 17 marzo 1861, infatti, avevamo un Re che di fatto catturò facilmente l’ immaginario collettivo dei vari popoli che vennero annessi alla sua sudditanza: Vittorio Emanuele era tarchiato e di colore rubizzo, dalle fattezze e le maniere ruvide, più da popolano che da nobile, dal vigore virile, gioviale, disinvolto e impetuoso, aperto e affabile, un vero e proprio uomo del popolo con cui si intratteneva sempre volentieri nelle sue amate scorribande campagnole e venatorie. Amava la compagnia e l’ allegria e avversava i salotti, era molto sensibile alla buona cucina delle Langhe, ai vini invecchiati e al fascino femminile, concedendosi un’ amante dopo l’ altra e mettendo al mondo chissà quanti figli illegittimi che poi si preoccupò di sistemare. Insomma, era ben lontano dagli ambienti, dai gusti e dalle sottigliezze della politica considerati dai suoi trentanove predecessori e persino dal figlio e successore, freddo e compassato, che si sforzò per tutta la vita di impersonare davanti al popolo l’ autorità e, peraltro, pur essendo il quarto Savoia a regnare con il nome di Umberto, decise di chiamarsi Umberto I per rispetto verso la Patria. Il Re Galantuomo fu in pratica ben altro in confronto all’ immagine tradizionale che la sudditanza ha di un monarca, ma forse proprio per questo seppe ritagliarsi splendidamente un ruolo fondamentale in molti contesti diversi: simbolo vivente dell’ unità nazionale e garante imparziale del carattere parlamentare italiano comunque al centro di considerevoli iniziative politiche. Quando, tra il 30 novembre e il 6 dicembre 1855, ancora trentacinquenne e sovrano subalpino, fu ospite della corte britannica, venne immortalato tra le pagine del diario della leggendaria Regina Vittoria, non senza una punta di ironia quanto di ammirazione: «Il Re di Sardegna ha un modo di esprimersi rapido e brusco. Indossa un’ uniforme azzurra, di cui la giubba, piuttosto corta, ricorda quella degli ussari, ed è guarnita di pelliccia.». Poi: «Il Re ha uno strano aspetto, non è molto alto, ma di corporatura massiccia; ha due occhi azzurri sporgenti, che fa roteare in modo particolare quando si imbarazza, si compiace o è colpito da qualcosa di particolare. E’ un uomo rozzo. Spesso è sfrenato nelle passioni, soprattutto con le donne. Balla come un orso, parla in modo ​sconveniente: ma se entrasse il drago sono sicura che tutti fuggirebbero tranne lui. Sguainerebbe la spada e mi difenderebbe. E’ un cavaliere medievale, un soldato, questo Savoia!». E ancora: «Quando lo si conosce bene, non si può fare a meno di amarlo. Egli è così franco, aperto, retto, giusto, liberale e tollerante e ha molto buon senso. Non manca mai alla sua parola e si può fare assegnamento su di lui.».


Oggi, invece, la Repubblica e la sua politica possono vantare anche solo un uomo altrettanto degno di stima e simpatia attorno al quale ci si possa schierare? La democrazia ha bisogno di aiuto, qui e ora, e in tutto questo si può credere fermamente che il ritorno della Monarchia giocherebbe un ruolo di tutto rispetto: i Paesi più progrediti e democratici in Europa sono infatti Regni parlamentari o costituzionali. La Monarchia è come una grande famiglia, sia nei momenti lucenti che in quelli bui, e i vari membri della famiglia reale sono sempre vicini alla popolazione condividendone felicità e tristezze: anche nella maggior parte delle Repubbliche le famiglie reali godono di un certo alone di prestigio e ammirazione! Un Re è imparziale e rappresenta l’ unità della nazione, indipendentemente dalle battaglie politiche, mentre un Presidente è come un giocatore di una delle due squadre chiamato a fare da arbitro a metà partita. Peraltro, il sovrano, che detiene anche altri titoli favorendo l’ identificazione nella sua figura della maggioranza della popolazione, è preparato fin dai primi anni di vita a svolgere il suo compito e una volta intronizzato sa come comportarsi e rappresentare il suo Paese. Vincola forze armate, diplomazia, magistratura e alta amministrazione alla Corona proteggendole dagli interessi delle fazioni e assicurando la neutralità politica dello Stato. Avendo un mandato a vita, ha una visione sul lungo termine anziché sul breve come quella di un normale politico, che una volta eletto si concentra sul proprio breve mandato e pensa solo ad essere riconfermato. La Monarchia è un sistema dal fortissimo potere simbolico, in cui il Re incarna lo Stato, che viene visto più favorevolmente, con un misto di curiosità e ammirazione da parte del popolo: lui e la sua famiglia sono il simbolo per eccellenza dell’ identità nazionale, e ovunque vadano la gente si accalca per vederli e sente lo Stato più presente e vicino. La Monarchia aiuta l’ economia: un matrimonio, un anniversario ed anche un funerale sono fonte di attrazione per moltissime persone che sul posto consumano, dormono, acquistano ricordini. Tutto questo in una Repubblica non succede affatto. Essa porta turismo, peraltro: se a Londra le persone fanno la fila per andare a visitare Buckingham Palace e a Montecarlo per andare a vedere Palais Princier, molte meno vanno a vedere l’ Eliseo o la sede presidenziale di una qualsivoglia capitale repubblicana. Addirittura, una Monarchia costa meno della Repubblica: in Europa, le residenze più care sono il l’ Eliseo e il Quirinale! Un sovrano, titolare dei tre poteri che delega a governo, parlamento e magistratura, e non può e non deve schierarsi ​mai politicamente, racchiude in sé storia e tradizione e promuove una visione di Patria ed Europa scevra dagli intriganti poteri economici. E’ un imparagonabile freno al dilagare dei vecchi e nuovi saloni delle banche che spadroneggiano sempre di più.


Se l’ Italia di oggi rispettasse davvero la propria storia, il 17 marzo sarebbe una ricorrenza molto più conosciuta, sentita e universale. Nonostante il lato rovescio del Risorgimento, l’ unità fu un vero e proprio miracolo perché nella frammentazione politica che da troppo tempo caratterizzava l’ Italia era tutt’ altro che facile costruire un unico Stato laddove, appena un paio d’ anni prima, ve ne erano addirittura sette. E se finalmente si decidesse ad abbandonare il proprio campanilismo locale in nome di un passato frammentato, unendo le proprie diversità interne come le dita di una mano anziché usarle come scusa per rimanere divisi, il Belpaese diverrebbe finalmente una realtà politica fondamentale sia in Europa che nel Mediterraneo, mediandone i numerosi contrasti in una prospettiva che lo stesso Conte di Cavour già nel 1846 aveva indicato valutando l’ importanza dei porti di Napoli e Palermo per il suo sviluppo economico: «L’ Italia sarà chiamata a nuovi e alti destini commerciali. La sua posizione al centro del Mediterraneo, o, come un immenso promontorio, sembra destinata a collegare l’ Europa all’ Africa.». Una magnifica intuizione che però mai fu compresa dalla politica! Se solo questo ineguagliabile Presidente del Consiglio non fosse venuto a mancare ad appena una decina di settimane dalla proclamazione del Regno d’ Italia a soli cinquantuno anni nella sua residenza di famiglia, ucciso dalla malaria contratta per l’ assidua cura delle sue amate risaie, la nazione avrebbe continuato a beneficiare delle sue illuminazioni nell’ ora più bisognosa, e la difficile opera di unificazione dello Stato in una realtà variegata per esperienze politiche e culturali sarebbe stata ben più facilitata a vantaggio sia della generazione di allora che di quelle successive, fino a noi oggi. Possa quindi questo giorno aiutarci a riflettere sul valore e la vastità della nostra ricchissima e sfaccettata eredità: l’ Italia è una sola grande realtà, ma è anche molte preziose realtà contemporaneamente, e se queste finalmente imparassero a convivere e interagire, avremmo solo da guadagnarci.


Vi è un’ ulteriore grave mancanza da evidenziare. E’ noto che siamo un popolo distratto, tanto da vivere nell’ unico Paese al mondo in cui il ricordo dei suoi Padri fondatori, Re Vittorio Emanuele II e il Conte di Cavour, non è affatto considerato. Il giorno della loro nascita e quello della loro morte non rientra nel novero delle festività nazionali, e il bicentenario della loro venuta al mondo non è stato oggetto di alcuna ricorrenza ufficiale. Dopo il 1946, la classe dirigente repubblicana, antimonarchica analogamente a quella fascista, addossò alla Monarchia tutte le colpe del decaduto regime, che essa aveva subìto così come in Germania la Repubblica aveva patito il Nazismo, portando ad una vera e propria azione di distacco nei riguardi del passato. Un Savoia come Padre della Patria era considerato inammissibile e, per riflesso, anche il retaggio del Tessitore ne ha pesantemente risentito. Lo statista è stato dimenticato dallo Stato, come ebbe a dire per esempio Nerio Nesi, politico, banchiere e partigiano a lungo dirigente del Partito Socialista Italiano: «E’ una rimozione in atto da tempo, e lo dimostra il fatto che vie e piazze sono molte meno di quelle che ha Garibaldi, personaggio ‘più facile’, più popolare, anche nel senso più populista. Ma il vero Padre della Patria è Cavour. E quasi tutti se lo sono dimenticato. Al punto che non si trovano neanche i pochi soldi che sono necessari per mantenere il patrimonio cavouriano nel paese natale di Santena: il castello settecentesco, col parco all’ inglese, la tomba di famiglia, la biblioteca e l’ archivio ricco di documenti.». Il Conte di Cavour non è raccomandato, dunque non riceve appoggi: troppo liberale per la sinistra, troppo torinese e troppo poco populista per la destra, troppo italiano per i movimenti secessionisti e federalisti come quello della Lega. Meglio dunque ignorarlo, nello smemoramento più sconcertante, evitando che politici e intellettuali improvvisati riacquistino il ricordo del passato portando a starnazzanti baruffe televisive che fanno tanto bene a quegli indici di ascolto che fanno gola alle emittenti televisive anziché ad un ricordo storico alla base di un dibattito chiarificatore e sereno. Questo è ciò che promuove il culturame di questo nostro mondo contemporaneo. Che Cavour non pensasse ad una sola Italia ma a tre è un fatto comprovato. Il suo disegno originario presentato ai Bonaparte era essenzialmente una Confederazione italica, formata dai tre regni dell’ Italia settentrionale, centrale e meridionale e presieduta in forma onoraria dal pontefice, come compensazione del potere temporale di cui sarebbe stato privato. Imprevisti e miopie politiche mutarono il corso degli eventi, e il progetto federalista del Conte tramontò. Pesò moltissimo l’ inconsistenza degli alleati, e il risultato fu il personaggio che conosciamo, non più federalista, ma paladino dell’ Unione nazionale. Come scrisse Montanelli: «Solo dopo l’ Unificazione Cavour scese a visitare Bologna, Firenze e Pisa, ma oltre l’ Arno non andò mai. E al ritorno disse al suo segretario: ‘Meno male che abbiamo fatto l’ Italia prima di conoscerla.’.». L’ incuria del patrimonio spirituale e politico di questo valente governante, nostro grande vanto, ha raggiunto livelli così imbarazzanti che, nel 2020, nel corso della puntata di Natale del programma televisivo «L’Eredità» ebbe luogo un madornale scivolone per mezzo di una delle domande del conduttore Flavio Insinna ai concorrenti: «Nel 1869 con quale frase Cavour avvertì l’ ambasciatore piemontese che Garibaldi era arrivato a Napoli?». Peccato però che, nel 1869, il Presidente del Consiglio fosse morto da ben otto anni, essendo passato ad altra vita il 6 giugno del 1861! Altro esempio inequivocabile è il problema del degrado in cui versa il suo monumento in Piazza Carlina, una delle più belle di tutta Torino: inaugurato nel 1873 e realizzato dall’ architetto senese Giovanni Duprè, oggi versa in pessimo degrado a causa di fattori chimici e fisici, e del crescente vandalismo.

C’ è una forte censura nella trasmissione del ricordo della nostra storia come Paese unito. Più semplicemente e drammaticamente, il 17 marzo 1861 il Re Galantuomo e il Tessitore unirono e crearono un Paese che i politici repubblicani odierni stanno portando inesorabilmente alla dissoluzione, pezzo per pezzo, sullo stesso destino dell’ Impero romano d’ Occidente nel 476…

 

Buon 17 marzo a tutti. L’ Italia innanzitutto, W il Re!


Giacomo Ramella Pralungo

martedì 8 marzo 2022

Il martirio della filosofa Ipazia di Alessandria

In occasione della lieta e sentita ricorrenza di oggi, rieditiamo un articolo che Giacomo Ramella Pralungo preparò in omaggio alla Donna e di cui ottenne la pubblicazione nel 2016 sul giornale «Il Biellese».


Porgendo a tutte le signore un cordiale augurio di felice Festa della donna, ricorrenza internazionale celebrata per la prima volta nel 1909 negli Stati Uniti per poi diffondersi gradualmente nel mondo allo scopo di ricordare le conquiste sociali, politiche ed economiche del gentil sesso così come le discriminazioni e le violenze che ha subìto in passato e tuttora patisce in alcune zone del mondo, pare appropriato ricordare l’ esempio di Ipazia, filosofa, astronoma e matematica di altissimo livello assassinata l’ 8 marzo 415 ad Alessandria d’ Egitto da una folla di cristiani in tumulto che non tolleravano la presenza di una donna, peraltro pagana, dedita alle scienze e al sapere.

Ipazia era figlia di Teone, geometra, filosofo e insegnante attivo ad Alessandria, dedito soprattutto alla matematica e all’ astronomia, tra l’ altro esponente dell’ onorato lignaggio culturale del Museo tolemaico, fondato quasi sette secoli prima e andato distrutto al tempo della guerra condotta da Aureliano, sebbene i relativi insegnamenti medici e matematici germogliati entro le sue mura sopravvissero interamente. Grandemente erudita e convinta fautrice della libertà di pensiero, succedette al padre e ottenne molta stima per i dibattiti franchi e sinceri con i potenti quanto per la disinvoltura con cui appariva alle riunioni dei saggi e degli anziani, tutti uomini, tra i quali in virtù della sua spiccata intelligenza riscosse una simpatia generale, se non proprio una grande venerazione. Era riverita tanto dai discepoli pagani quanto da quelli cristiani, eppure sul suo capo non tardò ad ammassarsi una tempesta fatale: in occasione della quaresima del 415 una folla inferocita e armata di cocci la massacrò, la fece a pezzi e la diede alle fiamme. Alcune fonti sostengono che gli assassini fossero una schiera di parabolani, monaci dediti alla cura dei malati e alla sepoltura dei morti, mandata dal vescovo e patriarca alessandrino Cirillo, uomo assai potente e fanatico sostenitore della pura tradizione cristiana, che avrebbe aizzato i cristiani dell’ impero d’ oriente a vendicarsi sugli ultimi pagani superstiti per le passate persecuzioni: la morte di Ipazia, cardine della cultura e del pensiero libero, avrebbe posto fine al suo consenso e alla sua influenza, consentendo al vescovo e alla Chiesa di colmare saldamente il vuoto.

Ipazia di Alessandria;

Comunque siano andate le cose, è imperativo ricordare che fino a oggi non sono molte le donne che hanno potuto porsi in evidenza negli ambienti sociali e culturali, ritenuti un monopolio propriamente maschile. Per quanto amiamo definirci una società civile, si deve ammettere che c’ è ancora molta strada da fare, che le nostre donne continuano a vivere in una situazione precaria e insicura che le frena socialmente e professionalmente. E quando hanno successo facciamo commenti più o meno ironici su come ci siano riuscite. Peraltro sarebbe bene tenere a mente che nemmeno negli ambienti del Cristianesimo originario sono mancate vicende di violenza fanatica per molti versi affini a quanto sta accadendo attualmente nel criticato Medio Oriente musulmano.

mercoledì 2 marzo 2022

Messaggio di Giacomo Ramella Pralungo a proposito della guerra in Ucraina

 


L’ esercito russo ha invaso l’ Ucraina la notte tra il 23 e 24 febbraio scorso. Da allora si sono susseguite reazioni di solidarietà al Paese dell’ Europa orientale e di severo sdegno verso la Russia, tra sanzioni economiche e aiuti militari all’ Ucraina. Questa crisi politica, diplomatica, militare ed economica preoccupa molto Giacomo Ramella Pralungo, autore di narrativa e di articoli storici e culturali, che ha desiderato trasmettere un messaggio in cui espone la propria panoramica su quanto sta accadendo.

 

Occhieppo Superiore, 2 marzo 2022;


Per capire quello che sta succedendo in queste ore occorre partire da molto lontano: l’ identità russa, infatti, ebbe origine attorno a Kiev, e non nei pressi di Mosca o San Pietroburgo. Le popolazioni Rus si aggregarono verso l’ anno 1000 nei territori che sono oggi in Ucraina orientale, in opposizione fin da allora a un regime polacco-lituano che comprendeva Leopoli, conquistata nel 1349 da Casimiro il Grande, Re di Polonia. Come ha detto nei giorni scorsi lo stimato professor Alessandro Barbero: «Non c’ è mai stato alcun dubbio che l’ identità russa, il popolo russo, la cultura russa nascono nella Rus di Kiev.». Più tardi, questi protorussi convertiti al Cristianesimo ortodosso si espansero verso nord e il centro di gravità si spostò verso Mosca mentre l’ Ucraina divenne gradualmente la periferia dell’ Impero russo, consolidato da Ivan il Terribile che per primo assunse il titolo di Zar di tutte le Russie. Mosca e Kiev rimasero però inseparabili, dal punto di vista religioso, politico ed economico: l’ Ucraina si confermò come il granaio della Russia, e oggi lo è anche dell’ Europa se pensiamo che i produttori di pasta italiani in questi giorni si sono lamentati per il blocco delle forniture causato dall’ invasione.

Leopoli fu invece per secoli parte dell’ Impero austriaco e quindi cattolica: i confini attuali dell’ Ucraina vennero tracciati alla fine della Seconda Guerra Mondiale, con la sconfitta del Nazismo e l’ espansione verso ovest dell’ Unione Sovietica, mossa che faceva parte dell’ ossessione per la sicurezza di tutti i regimi politici di Mosca, dagli Zar a Stalin e da Krusciov a Putin. Per sua sfortuna, l’ Ucraina è estesa, andando da Luhansk nel Donbass a Leopoli, presso il confine polacco, milleduecento chilometri più in là. La conseguenza inevitabile è che Leopoli gravita verso la cattolica Polonia e l’ Europa occidentale, mentre Luhansk è ortodossa, parla russo e guarda verso Mosca. Sono le radici di un nazionalismo ucraino e di un nazionalismo russo che si sono combattuti sotterraneamente ma cruentemente per tutto il Novecento, come negli anni Trenta, quando in Ucraina ci fu una terribile carestia, con milioni di morti, ricordata oggigiorno come un genocidio deliberatamente attuato da Stalin. Negli stessi anni, Stepan Bandera, nazionalista ucraino, organizzò l’ assassinio del Ministro degli Interni polacco nel 1934, e nel 1941 si mise al servizio dei nazisti quando Hitler invase l’ Unione Sovietica. Dopo la guerra, movimenti separatisti di guerriglia rimasero attivi in Ucraina orientale per molti anni, mentre nel 1991, al momento della dissoluzione dell’ Unione Sovietica, il Presidente degli Stati Uniti Bush e il Cancelliere tedesco Kohl erano preoccupatissimi della possibilità di una superpotenza dotata di armi nucleari frammentata in undici Stati indipendenti in preda al caos politico e spesso ostili fra loro, come Armenia e Azerbaigian. Quindi Stati Uniti e Germania trattarono diplomaticamente per bilanciare la potenza militare propria e quella della Russia, allora presieduta dal filooccidentale Boris Eltsin, e promisero di non espandere verso Oriente la NATO, organizzazione militare creata nel 1949 per contrapporsi alla potenza sovietica. Se un calcolo va fatto, la stessa NATO, essendo stata concepita in funzione difensive contro uno Stato che non esisteva più, si sarebbe dovuta estinguere a sua volta, ma questo non accadde e, al contrario, fece rapidamente aderire le tre repubbliche baltiche Estonia, Lettonia e Lituania, oltre alla Polonia. Nonostante gli ammonimenti del diplomatico e storico George Kennan, gli Stati Uniti cercarono di coinvolgere anche Georgia e Ucraina, Stati di confine che la Russia non poteva accettare come avamposti di potenze straniere. La situazione rimase fluida finché queste due repubbliche conservarono governi più o meno amici di Mosca, ma era destinata a precipitare quando a Kiev e a Tbilisi arrivarono regimi antirussi, sull’ onda di una rivoluzione popolare come accadde nel 2014 in Ucraina. Da allora, a Kiev si sono succeduti vari governi di breve durata, in genere legati agli oligarchi che si erano spartiti le ricchezze sovietiche al momento del crollo del Comunismo, mentre a Mosca si consolidava il potentato di Vladimir Putin. Forse una soluzione diplomatica si sarebbe potuta trovare sulla base di una neutralizzazione dell’ Ucraina, come proposto recentemente dall’ ex ambasciatore italiano a Mosca Sergio Romano, ma nessuno si fidava di nessuno e dalle parole si è passati alle armi.

Ora rimangono solo il sibilo dei missili e le sofferenze delle popolazioni. La motivazione ufficiale di questo conflitto è la protezione degli ucraini filorussi, suddivisi in due zone dell’ Ucraina autoproclamatesi repubbliche indipendenti di Donetsk e Lugansk, e la smilitarizzazione del Paese che Putin vorrebbe neutrale e fuori dall’ orbita dell’ Europa occidentale. Le motivazioni reali sono invece la volontà della Russia di riportare l’ Ucraina nella propria orbita, creare in Ucraina un governo filo russo che la allontani dall’ Europa occidentale e impedire un ulteriore spostamento della NATO verso est e quindi tornare a creare dei «Paesi cuscinetto» tra Russia ed Europa occidentale.



Sono profondamente addolorato a causa del conflitto in Ucraina, che in tutta evidenza non può vincere questa guerra. Il diritto all’ autodeterminazione dei popoli, lo sdegno nei confronti di chi invade un altro Paese non cambiano il fatto che l’ Ucraina non ha la forza per resistere all’ assalto di una potenza tanto vasta e forte come la Russia. Non può vincere senza la discesa in campo delle potenze occidentali, ma ciò significherebbe la Terza Guerra Mondiale, una guerra nucleare. E se dovesse accadere non avrebbe più importanza chi aveva ragione, non varrebbero più gli ideali, la ragion di Stato, l’ eroismo della lotta contro l’ oppressore. Intere città sarebbero distrutte, le vittime sarebbero milioni. Il tributo umano sarebbe talmente alto da annientare qualunque ragione.

Per quanto privi di senno, i capi di Stato non si spingeranno fino a questo punto. Non sarebbe conveniente per nessuno e in fondo tutti lo sanno. Ma non possono neanche perdere la faccia al cospetto del ciclope russo, mostrare al mondo che non siamo noi ad essere i più forti. Così si sta scegliendo la terza possibilità: aiutare l’ Ucraina a resistere e nel frattempo logorare Putin colpendone l’ economia, la finanza, le banche. Ma lui non cederà, almeno non subito. Perché il popolo russo patirà la fame ma i potenti non ne saranno toccati. Non così profondamente. L’ opinione pubblica si schiererà contro il governo, ma questo farà ciò che ha sempre fatto davanti al malcontento e alle sofferenze del popolo: lo ignorerà. Il malumore si diffonderà nell’ esercito, alla fine colpirà anche gli oligarchi che vedranno diminuiti i loro beni e privilegi ma questa strategia impiegherà tempo per dare i suoi frutti. Nel frattempo noi continueremo ad inviare armi al popolo ucraino. Già da giorni donne, ragazzi e bambini raccolgono bottiglie di vetro per costruire bombe incendiarie, Kiev è una trincea a cielo aperto e in Occidente i giornali esaltano il loro eroismo. Sono loro l’ ultima difesa. Resisteranno e combatteranno, migliaia saranno le vittime e un giorno un fotografo immortalerà per la commozione delle future generazioni il ritratto di una ragazza che imbraccia un fucile per resistere all’ invasore. Alla fine, dopo questa logorante guerriglia, entrambe le parti saranno più disposte a trovare un accordo. E qualcuno forse esulterà, perché Putin è stato fermato, il grande malvagio è stato sconfitto, ma per fermare un male noi nel frattempo avremmo contribuito a creare un male anche peggiore. Perché non importa quante saranno le vittime, non importa la devastazione e la carneficina che provoca la guerra, l’ Occidente non poteva perdere la faccia...



Il nostro mondo è diventato così interdipendente che il violento conflitto tra due Paesi ha inevitabilmente un impatto notevole sul resto del mondo. La guerra si combatte sul campo, eppure i suoi risvolti si manifestano con altrettanta crudeltà in tutto il mondo, tra aumento dei costi dell’ energia e del riscaldamento, della benzina, dei beni alimentari e crollo dell’ economia già zoppicante a causa del COVID-19, delle speculazioni e perfino degli attentati dell’ 11 settembre 2001 al Centro di Commercio Mondiale di New York. Il Novecento è stato notoriamente il secolo che ha visto due guerre mondiali, il Duemila deve essere quello del dialogo, come alternativa alla pericolosità della guerra moderna, che oggi per sua natura si combatte senza quartiere e provocando danni devastanti su più fronti, e non soltanto su quello militare. Basti pensare a quello intricato e delicato della diplomazia, un’ arte subdola e raffinata da cui dipende la pace per mezzo di trattative e accordi che fungeranno da base per le successive decisioni internazionali.

Mi auguro vivamente che la pace venga ristabilita il più velocemente possibile, e che i responsabili di questa indecente crisi si assumano le loro responsabilità.

 

Giacomo Ramella Pralungo

Giacomo Ramella Pralungo ai funerali di Vittorio Emanuele, ultimo erede al trono d’ Italia

Il feretro di Vittorio Emanuele condotto in Duomo; In virtù di problemi tecnici dei giorni scorsi, e scusandoci per il ritardo, pubblichia...