Giacomo
Ramella Pralungo, autore di narrativa fantascientifica e di articoli di argomento
storico, culturale e scientifico, in quanto italiano rispetta il valore sociale
del 2 giugno, Festa della Repubblica italiana, ma come monarchico legato al
ramo dei Duchi d’ Aosta di Casa Savoia, l’ ex famiglia reale, nutre serie
incertezze su quanto accadde in occasione del celebre referendum del 2 e 3
giugno 1946 in termini più storici e istituzionali.
Oggi
affida il proprio pensiero ad una pubblicazione appositamente preparata.
In
questo giorno, la Repubblica italiana compie settantasette anni. Negli ultimi
quasi otto decenni trascorsi dal referendum del 1946, il Belpaese si è
affacciato sulla scena internazionale guadagnando un certo peso, benché
recentemente sia apparso piuttosto scricchiolante, tra crisi economica e istituzionale.
La politica in particolare ci ha svelato i suoi scheletri ben nascosti nell’
armadio, uno dopo l’ altro, tra scandali, processi, raccomandazioni,
corruzione, trattative con il crimine organizzato, brogli elettorali e,
purtroppo, molto altro ancora. Nulla di cui stupirsi, se consideriamo che lo
stesso referendum che oggi noi ricordiamo fu scandito da vicende tanto
discutibili e opportunamente occultate sul nascere perché soprattutto in quei
giorni era troppo pericoloso e imbarazzante parlarne apertamente. Ora, però, a
tre generazioni circa di distanza, si direbbe che i tempi siano
sufficientemente maturi per discuterne come si conviene e fare determinate
ammissioni, come il fatto che questa Repubblica nacque con il piede sbagliato
divenendo con il tempo uno Stato di fatto ma non di diritto.
Re Umberto II al voto referendario; |
Quella
relativa al voto è una forma di libertà unica nel suo genere per importanza, ed
è grazie ad esso che la democrazia può sperare di sopravvivere al meglio:
ognuno di noi può e deve esprimere una preferenza affinché il sistema imbocchi
la direzione migliore nell’ interesse generale, senza esclusivismi. Una
votazione ha quindi bisogno di svolgersi in un ambiente sereno e spontaneo,
libero da interferenze e pressioni, e già queste considerazioni a mio parere
pongono seri dubbi sulla validità di un plebiscito avvenuto in un Paese che
soltanto l’ anno prima era uscito pesantemente sconfitto da una guerra
disastrosa e che continuava ad essere occupato da ben tre potenze vincitrici,
ossia Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica, ognuna delle quali aveva
tutto l’ interesse a pilotarne i risultati al fine di infiltrarsi meglio nella
politica locale ed influenzarla a proprio vantaggio.
Il
referendum del 2 e 3 giugno 1946 era stato previsto già due anni prima, con il
decreto luogotenenziale 151 del 25 giugno 1944, una volta che la guerra sarebbe
stata conclusa. Sua Altezza Reale il Principe Umberto di Piemonte, Luogotenente
del Regno dal 5 giugno 1944, decretò che la forma istituzionale dello Stato
sarebbe stata scelta tramite un referendum da indirsi contemporaneamente all’
elezione dell’ Assemblea costituente. Gli italiani furono chiamati a scegliere
tra Monarchia o Repubblica, e per la prima volta avrebbero votato anche le
donne. L’ affluenza popolare fu molto elevata, dai dati ufficiali si registrò
infatti una partecipazione pari all’ 89.1% degli aventi diritto. La prima
anomalia pratica di tale consultazione, però, fu che non poterono recarsi a
votare coloro che si trovavano ancora al di fuori dei confini nazionali, come i
prigionieri di guerra non rimpatriati, i residenti nelle colonie, gli abitanti
di Trieste, Gorizia, provincia di Bolzano, trecentomila profughi in Venezia-Giulia
e Dalmazia, i tanti sprovvisti degli adeguati certificati elettorali: le
autorità fecero sapere che questi italiani, quasi tre milioni in tutto,
avrebbero votato in seguito, ma alla fine così non fu!
Una
volta terminate le operazioni di voto, le schede furono trasferite nella Sala
della Lupa a Montecitorio, ove, in presenza della Corte di Cassazione, degli ufficiali
britannici e statunitensi e della stampa, iniziarono le operazioni di spoglio.
Il 4 giugno i Carabinieri comunicarono a Papa Pio XII che la Corona era in
vantaggio, e il giorno successivo il Presidente del Consiglio dei ministri
Alcide De Gasperi annunciò a Umberto, nel frattempo divenuto Re a seguito dell’
abdicazione del padre Vittorio Emanuele III, che il popolo si era espresso a
favore della forma monarchica: a conferma di ciò giunsero a Roma i rapporti
dell’ Arma provenienti dai seggi che confermavano la vittoria della Monarchia.
Re Vittorio Emanuele III al fronte nella Grande Guerra; |
Tuttavia,
nella notte tra il 5 e il 6 giugno i risultati si capovolsero con l’ immissione
di una valanga di voti di dubbia provenienza, tanto che analisi statistiche
successive evidenziarono quanto il numero delle schede considerate valide fosse
di gran lunga superiore a quello dei possibili elettori. Ebbe luogo pertanto uno
scontro senza esclusione di colpi tra i servizi segreti statunitensi,
favorevoli alla Repubblica, e quelli britannici, orientati verso la Monarchia,
mentre le truppe del Maresciallo Tito di Jugoslavia si dichiararono pronte a varcare
il confine nel caso in cui la forma repubblicana, ovviamente a maggioranza
comunista, non avesse prevalso. Contemporaneamente, furono avviati migliaia di
ricorsi per chiedere un conteggio più attento delle schede elettorali, ma il 10
giugno la Corte di Cassazione proclamò i risultati: 12.672.767 voti per la Repubblica
e 10.688.905 in favore della Monarchia. Il verbale concludeva precisando che la
stessa Cassazione avrebbe reso in altra sede il parere sulle contestazioni e i
reclami presentati presso gli uffici delle varie circoscrizioni, nonché circa
l’ esito definitivo del voto. Alla notizia che la Repubblica aveva prevalso, in
molte città del Meridione, ove la Monarchia aveva raggiunto un risultato notevole,
scoppiarono proteste e tafferugli: celebre per drammaticità fu l’ episodio
ricordato come la strage di via Medina, avvenuto l’ 11 giugno a Napoli, quando
un corteo cercò di assaltare la sede del PCI in cui si esponeva oltre alla
bandiera rossa con falce e martello anche un Tricolore privo dello stemma
sabaudo, venendo bloccato dalla polizia che rispose aprendo il fuoco uccidendo
nove manifestanti e ferendone un centinaio. Tra i giovani comunisti vi era
anche Giorgio Napolitano. Io penso che questo particolare dramma debba
rappresentare una lezione di prudenza e saggezza da tenere laddove il clima è
particolarmente caldo.
Contrariato
al pensiero dei numerosi indizi di brogli e deluso dal fatto che non era stato
rispettato il decreto luogotenenziale del 1944 nella parte in cui recitava che
la forma istituzionale vincitrice avrebbe dovuto aggiudicarsi il voto della «maggioranza
degli elettori votanti», in quanto la Cassazione nel conteggiare il totale non
aveva preso in considerazione le schede nulle e quindi vi era la possibilità
che nessuna delle due alternative avesse raggiunto la metà più uno dei voti,
Sua Maestà Umberto preferì prendere atto del risultato e lasciare l’ Italia alla
volta del Portogallo, evitando così che le proteste già in atto in un Paese
spaccato in due sfociassero nella guerra civile. Altro che i politici
repubblicani di oggi, proverbialmente legati alla propria poltrona con tutte le
comodità e privilegi che ne derivano!
L’
ultima parola sull’ esito della consultazione sarebbe spettata alla Cassazione
che, il 18 giugno, con il voto di dodici magistrati contro sette, stabilì che
per «maggioranza degli elettori votanti» si dovesse intendere la prevalenza dei
soli voti validi. Inoltre, dopo aver respinto tutti i ricorsi, pronunciò l’ esito
definitivo della votazione, in favore della Repubblica. Nei mesi seguenti, in
diverse zone d’ Italia vennero ritrovati sacchi contenti schede elettorali
votate e prive di elementi invalidanti, ma ormai la questione concernente il
referendum era chiusa. Con il pronunciamento della Suprema corte ogni voce
dissidente tacque e la forma repubblicana non fu mai più messa in discussione.
Tutto ciò è solo una parte di ciò che venne riferito da alcuni protagonisti
dell’ epoca nel corso dei decenni. Negli anni successivi al 1946 furono
raccolte altre dichiarazioni, come quella del gesuita Giuseppe Brunetta che
narrò come nelle cantine del Quirinale egli stesso aveva visto casse contenti
schede mai aperte, ma il loro peso non può essere che storico dal momento che
politicamente non si può più tornare indietro.
Forse
non sapremo mai che cosa accadde davvero in quei giorni così drammatici, che
molto peso ebbero nella storia del Paese, ma di certo si può constatare quanto l’
Italia si divise, e con dolore, tra un Settentrione repubblicano e un Meridione
monarchico, con un popolo che rimase unito soltanto nel desiderio di
partecipare in massa per determinare il proprio destino, ambizione che a quasi
ottant’ anni sembra purtroppo essersi spenta come una candela.
Peggio
ancora, pare evidente l’ insincerità di una Repubblica che, dopo essere nata in
un contesto dubbio e violento, per quanto si vanti di aver rotto i ponti con il
Fascismo, negli anni volle al proprio servizio svariati ex funzionari fascisti,
camicie nere e altre figure inquietanti che, benché accusate da Jugoslavia,
Grecia, Albania, Francia e dagli angloamericani per crimini di guerra, mai
furono processate in Italia o epurate, estradate all’ estero o giudicate dai
tribunali internazionali: piuttosto, tutti loro furono reinseriti negli
apparati dello Stato democratico con ruoli di primo piano, divenendo questori,
prefetti, capi dei servizi segreti, deputati e ministri. Tra coloro che non si
macchiarono di colpe ma che parteciparono al governo fascista e ne condivisero
le idee vi furono ad esempio Giovanni Gronchi, sottosegretario al Ministero
dell’ Industria nel primo governo Mussolini e poi terzo Presidente della Repubblica;
Giuseppe Pella, Vice Podestà della città di Biella e poi secondo Presidente del
Consiglio dei ministri e più volte ministro; Amintore Fanfani, che si espresse
favorevolmente per il Manifesto della razza e le leggi razziali del 1938, poi
padre costituente e Presidente del Consiglio dei Ministri; Aldo Moro, in
gioventù di aperte simpatie fasciste avendo aderito ai Gruppi universitari
fascisti, favorevole al sostegno italiano alla guerra civile spagnola e all’
intervento nel 1940 a fianco della Germania vedendo nel Fascismo il miglior
sistema politico atto a garantire tale integrazione politica, civile e morale,
ovvero cristiana, e poi a sua volta Presidente del Consiglio; Giovanni
Spadolini, dalle giovanili simpatie per il Fascismo repubblichino fino al 1944,
quando lamentò che avesse perso «a poco a poco la sua agilità e il suo
dinamismo rivoluzionario, proprio mentre riaffioravano i rimasugli della
massoneria, i rottami del liberalismo, i detriti del giudaismo», primo
Presidente del Consiglio dei ministri non democristiano. Notevole fu poi il
caso di Giuseppe Pièche, uomo di fiducia di Mussolini e poi di Mario Scelba,
Presidente del Consiglio negli anni Cinquanta. E poi accusiamo la Monarchia di
complicità con il Fascismo, in nome della democrazia tipicamente repubblicana!
Altri personaggi cupi che nella neonata Repubblica divennero assai influenti
venivano dall’ ala dura dei partigiani, come i comunisti Palmiro Togliatti e
Pietro Secchia, di aperte simpatie sovietiche, e Francesco Moranino, capo partigiano
responsabile di svariati delitti ed eccidi, prima tra tutte la strage della
missione Strassera. Molti di loro si erano comportati come terroristi, avevano
compiuto inaccettabili abusi ed eccessi in nome dell’ ideologia rossa,
arrivando anche ad uccidere compagni d’ armi di differente orientamento
politico, trovando poi protezione in svariati Paesi comunisti, come la
Cecoslovacchia o la stessa Unione Sovietica. Tutte cose su cui grandi gruppi
quali l’ Associazione Nazionale Partigiani d’ Italia tendono opportunamente a
tacere in occasione del 25 aprile…
Giacomo con il Duca Aimone di Savoia; |
Il
1 gennaio 1948 venne infine approvata nella Costituzione repubblicana la XIII
disposizione transitoria, abrogata dopo ben cinquantaquattro anni nell’ ottobre
2002: «I membri e i discendenti di Casa Savoia non sono elettori e non possono
ricoprire uffici pubblici né cariche elettive. Agli ex re di Casa Savoia, alle
loro consorti e ai loro discendenti maschi sono vietati l’ ingresso e il
soggiorno nel territorio nazionale. I beni, esistenti nel territorio nazionale,
degli ex re di Casa Savoia, delle loro consorti e dei loro discendenti maschi,
sono avocati allo Stato. I trasferimenti e le costituzioni di diritti reali sui
beni stessi, che siano avvenuti dopo il 2 giugno 1946, sono nulli.». Una simile
norma ha rappresentato una vera e propria violazione delle regole democratiche
del referendum, nel tentativo di salvaguardare la Repubblica dal pericolo di un
ritorno alla Monarchia, tacciata di aver permesso la soppressione della
democrazia prima, e l’ entrata in guerra poi. Quanto all’ esilio dei Savoia,
peraltro, da qualche anno io faccio sempre notare che la vedova e i quattro
figli di Mussolini vennero tranquillamente lasciati vivere in Italia, senza che
nessuno mai pensasse di rivalersi su di loro espropriandoli dei beni e
obbligandoli a lasciare il Paese come punizione per le colpe del famigliare
defunto: ecco l’ ennesimo esempio dei due pesi e delle due misure tipiche dell’
ipocrisia della mentalità italiana!
Sotto
un aspetto storico, le attuali generazioni di italiani non hanno idea che la
Monarchia subì il Fascismo, che parimenti cercò di moderare, con il Re che contò
sempre sulla lealtà delle forze armate, della burocrazia statale, della magistratura
e della diplomazia benché il Fascismo potesse vantare una certa simpatia ad
ogni livello della società, soprattutto tra la borghesia e la nobiltà che
avversavano il Comunismo. All’ indomani della marcia su Roma del 28 ottobre 1922,
Benito Mussolini ricevette come Presidente del Consiglio incaricato ben trecentosei
voti di fiducia in Parlamento: quelli contrari furono solo centododici, e i
deputati fascisti appena trentacinque. Il Duce salì al potere con una
combinazione tra uso della forza, esibita e minacciata con la mobilitazione
teatrale degli squadristi, e rispetto formale della legge: per assurdo, la
Repubblica ha sempre dato tutta la colpa al Re, omettendo il fatto che i partiti
democratici del tempo, dai popolari ai liberali, votarono tutti la fiducia al
Fascismo. Ventun anni dopo, il 25 luglio 1943, nel pieno rispetto della via
costituzionale Vittorio Emanuele III sostituì Mussolini e pose fine alla
dittatura grazie al voto di sfiducia del Gran Consiglio del Fascismo, massimo
organo del Partito Nazionale Fascista divenuto negli anni il supremo organo
costituzionale del Regno d’ Italia, quando invece in Germania Adolf Hitler era
capo sia dello Stato e che del Governo, ragion per cui nessuno riuscì a
liquidarlo e la Germania, che era una Repubblica dal 9 novembre 1918, finì
distrutta e divisa…
Le
leggi razziali fasciste furono una vergogna di cui tutto il sistema italiano fu
responsabile, ma occorre ricordare che Vittorio Emanuele, legato al suo ruolo
di sovrano costituzionale, le firmò nel 1938 in quanto già vagliate dai
competenti organi dello Stato secondo l’ iter tipico di un sistema parlamentare.
Lui non era neppure razzista e men che meno antisemita, tanto che il medico di
corte, il dottor Stukjold, era ebreo, come il ginecologo professor Valerio
Artom, medico curante di Sua Altezza Reale la Principessa Maria José, moglie di
Umberto, che il Sovrano nominò barone di Sant’ Agnese nel 1927 e che aiutò a
espatriare in Svizzera. Vanto di Casa Savoia era stato, quasi un secolo
addietro, la concessione per mezzo dello Statuto Albertino dei diritti civili e
politici ai cittadini del Regno, compresi quelli di religione e discendenza
ebraica. Per tali ragioni Vittorio Emanuele non perse l’ occasione per far
presente a Mussolini il proprio dissenso, pur tenuto dallo Statuto alla firma
di quei provvedimenti scellerati e constatando con frustrazione di avere poche
possibilità di opporsi efficacemente, anche tenendo conto del fatto che in quel
momento storico il dittatore era all’ apice della sua popolarità, adorato dalle
masse e tenuto in gran conto all’ estero, e indicato quale «uomo della
Provvidenza» dal Papa. Sulla contrarietà del Re si espresse anche il Conte Galeazzo
Ciano nei propri Diari privati il 28 novembre 1938: «Trovo il Duce indignato
col Re. Per tre volte, durante il colloquio di stamane, il Re ha detto al Duce
che prova un’ infinita pietà per gli ebrei [...] Il Duce ha detto che in Italia
vi sono 20000 persone con la schiena debole che si commuovono sulla sorte degli
ebrei. Il Re ha detto che è tra quelli. Poi il Re ha parlato anche contro la
Germania per la creazione della 4 divisione alpina. Il Duce era molto violento
nelle espressioni contro la Monarchia. Medita sempre più il cambiamento di
sistema. Forse non è ancora il momento. Vi sarebbero reazioni.».
In
seguito, il 9 settembre 1943, dopo l’ accettazione dell’ Armistizio di
Cassibile, dopo un’ iniziale esitazione il Sovrano fu convinto da Pietro
Badoglio, nuovo Presidente del Consiglio succeduto al deposto Mussolini, circa
la necessità di non cadere nelle mani tedesche e di abbandonare Roma per
garantire la sopravvivenza delle istituzioni dello Stato in un luogo sicuro. Si
narra che in un primo momento abbia risposto al capo di Governo: «Sono vecchio,
anche se mi prendono cosa volete che mi facciano?». Badoglio, in seguito,
scrisse: «Ora, se il Governo fosse rimasto a Roma, la sua cattura sarebbe stata
inevitabile e i tedeschi si sarebbero affrettati a sostituirlo con un Governo
fascista ed avrebbero subito provveduto ad annullare l’ armistizio. Bisognava
ad ogni costo evitare questa disastrosa eventualità che avrebbe significato la
completa rovina dell’ Italia.». Il Re, la Corte e il Governo si stabilirono a
Brindisi: in Italia, dunque, e non all’ estero come tanti altri capi di Stato,
ove il Monarca ricevette il riconoscimento internazionale e rappresentò lo
Stato legittimo. Roma non poteva essere difesa con i suoi due milioni di
abitanti, la presenza del Papa, tante opere d’ arte e monumenti storici. Sarebbe
stata certamente una carneficina, e i nazisti, come successivamente dimostrato dalla
strage delle Fosse Ardeatine, non avevano il pregio di porsi troppi scrupoli. La
«fuga» del Re fu quindi un ritocco della propaganda nazista prima, e di quella
antimonarchica poi: quello del Duce verso la Svizzera fu invece un effettivo fuggifuggi,
e dall’ esito notoriamente drammatico e tuttora discusso poiché su di esso
aleggia il sospetto di un ordine di eliminazione fisica impartito da Sir
Winston Churchill al fine di celare adeguatamente i dettagli di una presunta
corrispondenza precedentemente intrattenuta con il dittatore ormai caduto in
disgrazia…
Giacomo con il suo Tricolore; |
Che
cos’ è quindi per me il 2 giugno?
Con
una certa amarezza mi vedo costretto a rispondere di considerarlo uno dei più
grandi fallimenti della storia italiana, da cui è scaturito un assetto
istituzionale che ha mancato tutti gli obiettivi che si era posto, primo fra
tutti quello di dare sovranità al popolo e rispettabilità alla nazione. Non v’
è infatti peggiore inganno del credersi sovrani ma di essere asserviti e vedere
il proprio Paese in mano ad una conventicola di grotteschi cialtroni, dai vari
Renzi e i Grillo, ai Di Maio e i Salvini, e così via discorrendo in un lungo
elenco. Il diritto di voto è uno dei più importanti con cui la cittadinanza
esercita quello di espressione, poiché per mezzo di esso si contribuisce alla
conduzione della vita della Patria d’ appartenenza. Consente la sopravvivenza e
la buona salute della democrazia, ma perché ciò avvenga non vi devono essere
intimidazioni o pressioni di alcun tipo. Deve essere spontaneo, e consapevole.
In un contesto come quello a cui si assistette nel 1946 non è possibile
assicurare un esito veritiero e civile. Io che svolgo un mestiere, quello di
autore, in cui l’ espressione è fondamentale, per quanto sia solamente l’
ultimo passaggio dato che è necessario innanzitutto individuare un argomento
degno di interesse, sento molto l’ esigenza di una libera espressione, sia essa
con la parola scritta o magari crociando una preferenza piuttosto che un’ altra
sulla scheda elettorale. Se le elezioni non sono libere ma soggette a pressioni
di qualsivoglia natura e provenienza, allora mi vedo costretto ad affermare che
troverei più onesto vivere in una dittatura che ammette di essere tale piuttosto
che in una democrazia fasulla ove il consenso popolare viene manipolato con la
propaganda e con gli imbrogli di elezioni dall’ esito opportunamente
indirizzato al fine di preservare l’ ordine costituito a beneficio di pochi
oligarchi. A questo proposito faccio sempre l’ esempio delle contraddizioni
della nostra attuale Costituzione, il cui Articolo 139 recita: «La forma
repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale.». Dopo quasi
ottant’ anni molto di ciò che la carta costituzionale afferma dal 1948 può e
dovrebbe essere adeguato ai tempi attualmente in corso, magari sbloccandone la
rigidità che in un primo momento poteva essere comprensibile nella necessità di
assicurare il consolidamento dello Stato in quegli anni turbolenti, e comunque
questo particolare concetto di per sé contraddice l’ Articolo 1: «La sovranità
appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della
Costituzione.».
La
Monarchia, malgrado la campagna di criminalizzazione scatenata contro di essa e
la sconfitta militare, non si macchiò di colpe o crimini, e secondo gli stessi
dati ufficiali al referendum raccolse quasi la metà dei voti del popolo
italiano: un risultato certamente non da poco, anzi. Oggi si celebra il capolinea
dell’ immagine pubblica del Belpaese, e mai come in queste ore sento il bisogno
di esibire il mio amatissimo Tricolore!
Giacomo Ramella Pralungo
Interessante
RispondiEliminaGrazie infinite, caro signore.
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