venerdì 2 giugno 2023

Il 2 giugno secondo Giacomo Ramella Pralungo


Giacomo Ramella Pralungo, autore di narrativa fantascientifica e di articoli di argomento storico, culturale e scientifico, in quanto italiano rispetta il valore sociale del 2 giugno, Festa della Repubblica italiana, ma come monarchico legato al ramo dei Duchi d’ Aosta di Casa Savoia, l’ ex famiglia reale, nutre serie incertezze su quanto accadde in occasione del celebre referendum del 2 e 3 giugno 1946 in termini più storici e istituzionali.

Oggi affida il proprio pensiero ad una pubblicazione appositamente preparata.


In questo giorno, la Repubblica italiana compie settantasette anni. Negli ultimi quasi otto decenni trascorsi dal referendum del 1946, il Belpaese si è affacciato sulla scena internazionale guadagnando un certo peso, benché recentemente sia apparso piuttosto scricchiolante, tra crisi economica e istituzionale. La politica in particolare ci ha svelato i suoi scheletri ben nascosti nell’ armadio, uno dopo l’ altro, tra scandali, processi, raccomandazioni, corruzione, trattative con il crimine organizzato, brogli elettorali e, purtroppo, molto altro ancora. Nulla di cui stupirsi, se consideriamo che lo stesso referendum che oggi noi ricordiamo fu scandito da vicende tanto discutibili e opportunamente occultate sul nascere perché soprattutto in quei giorni era troppo pericoloso e imbarazzante parlarne apertamente. Ora, però, a tre generazioni circa di distanza, si direbbe che i tempi siano sufficientemente maturi per discuterne come si conviene e fare determinate ammissioni, come il fatto che questa Repubblica nacque con il piede sbagliato divenendo con il tempo uno Stato di fatto ma non di diritto.

Re Umberto II al voto referendario;


Quella relativa al voto è una forma di libertà unica nel suo genere per importanza, ed è grazie ad esso che la democrazia può sperare di sopravvivere al meglio: ognuno di noi può e deve esprimere una preferenza affinché il sistema imbocchi la direzione migliore nell’ interesse generale, senza esclusivismi. Una votazione ha quindi bisogno di svolgersi in un ambiente sereno e spontaneo, libero da interferenze e pressioni, e già queste considerazioni a mio parere pongono seri dubbi sulla validità di un plebiscito avvenuto in un Paese che soltanto l’ anno prima era uscito pesantemente sconfitto da una guerra disastrosa e che continuava ad essere occupato da ben tre potenze vincitrici, ossia Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica, ognuna delle quali aveva tutto l’ interesse a pilotarne i risultati al fine di infiltrarsi meglio nella politica locale ed influenzarla a proprio vantaggio.

Il referendum del 2 e 3 giugno 1946 era stato previsto già due anni prima, con il decreto luogotenenziale 151 del 25 giugno 1944, una volta che la guerra sarebbe stata conclusa. Sua Altezza Reale il Principe Umberto di Piemonte, Luogotenente del Regno dal 5 giugno 1944, decretò che la forma istituzionale dello Stato sarebbe stata scelta tramite un referendum da indirsi contemporaneamente all’ elezione dell’ Assemblea costituente. Gli italiani furono chiamati a scegliere tra Monarchia o Repubblica, e per la prima volta avrebbero votato anche le donne. L’ affluenza popolare fu molto elevata, dai dati ufficiali si registrò infatti una partecipazione pari all’ 89.1% degli aventi diritto. La prima anomalia pratica di tale consultazione, però, fu che non poterono recarsi a votare coloro che si trovavano ancora al di fuori dei confini nazionali, come i prigionieri di guerra non rimpatriati, i residenti nelle colonie, gli abitanti di Trieste, Gorizia, provincia di Bolzano, trecentomila profughi in Venezia-Giulia e Dalmazia, i tanti sprovvisti degli adeguati certificati elettorali: le autorità fecero sapere che questi italiani, quasi tre milioni in tutto, avrebbero votato in seguito, ma alla fine così non fu!

Una volta terminate le operazioni di voto, le schede furono trasferite nella Sala della Lupa a Montecitorio, ove, in presenza della Corte di Cassazione, degli ufficiali britannici e statunitensi e della stampa, iniziarono le operazioni di spoglio. Il 4 giugno i Carabinieri comunicarono a Papa Pio XII che la Corona era in vantaggio, e il giorno successivo il Presidente del Consiglio dei ministri Alcide De Gasperi annunciò a Umberto, nel frattempo divenuto Re a seguito dell’ abdicazione del padre Vittorio Emanuele III, che il popolo si era espresso a favore della forma monarchica: a conferma di ciò giunsero a Roma i rapporti dell’ Arma provenienti dai seggi che confermavano la vittoria della Monarchia.

Re Vittorio Emanuele III al fronte nella Grande Guerra;


Tuttavia, nella notte tra il 5 e il 6 giugno i risultati si capovolsero con l’ immissione di una valanga di voti di dubbia provenienza, tanto che analisi statistiche successive evidenziarono quanto il numero delle schede considerate valide fosse di gran lunga superiore a quello dei possibili elettori. Ebbe luogo pertanto uno scontro senza esclusione di colpi tra i servizi segreti statunitensi, favorevoli alla Repubblica, e quelli britannici, orientati verso la Monarchia, mentre le truppe del Maresciallo Tito di Jugoslavia si dichiararono pronte a varcare il confine nel caso in cui la forma repubblicana, ovviamente a maggioranza comunista, non avesse prevalso. Contemporaneamente, furono avviati migliaia di ricorsi per chiedere un conteggio più attento delle schede elettorali, ma il 10 giugno la Corte di Cassazione proclamò i risultati: 12.672.767 voti per la Repubblica e 10.688.905 in favore della Monarchia. Il verbale concludeva precisando che la stessa Cassazione avrebbe reso in altra sede il parere sulle contestazioni e i reclami presentati presso gli uffici delle varie circoscrizioni, nonché circa l’ esito definitivo del voto. Alla notizia che la Repubblica aveva prevalso, in molte città del Meridione, ove la Monarchia aveva raggiunto un risultato notevole, scoppiarono proteste e tafferugli: celebre per drammaticità fu l’ episodio ricordato come la strage di via Medina, avvenuto l’ 11 giugno a Napoli, quando un corteo cercò di assaltare la sede del PCI in cui si esponeva oltre alla bandiera rossa con falce e martello anche un Tricolore privo dello stemma sabaudo, venendo bloccato dalla polizia che rispose aprendo il fuoco uccidendo nove manifestanti e ferendone un centinaio. Tra i giovani comunisti vi era anche Giorgio Napolitano. Io penso che questo particolare dramma debba rappresentare una lezione di prudenza e saggezza da tenere laddove il clima è particolarmente caldo.


Contrariato al pensiero dei numerosi indizi di brogli e deluso dal fatto che non era stato rispettato il decreto luogotenenziale del 1944 nella parte in cui recitava che la forma istituzionale vincitrice avrebbe dovuto aggiudicarsi il voto della «maggioranza degli elettori votanti», in quanto la Cassazione nel conteggiare il totale non aveva preso in considerazione le schede nulle e quindi vi era la possibilità che nessuna delle due alternative avesse raggiunto la metà più uno dei voti, Sua Maestà Umberto preferì prendere atto del risultato e lasciare l’ Italia alla volta del Portogallo, evitando così che le proteste già in atto in un Paese spaccato in due sfociassero nella guerra civile. Altro che i politici repubblicani di oggi, proverbialmente legati alla propria poltrona con tutte le comodità e privilegi che ne derivano!

L’ ultima parola sull’ esito della consultazione sarebbe spettata alla Cassazione che, il 18 giugno, con il voto di dodici magistrati contro sette, stabilì che per «maggioranza degli elettori votanti» si dovesse intendere la prevalenza dei soli voti validi. Inoltre, dopo aver respinto tutti i ricorsi, pronunciò l’ esito definitivo della votazione, in favore della Repubblica. Nei mesi seguenti, in diverse zone d’ Italia vennero ritrovati sacchi contenti schede elettorali votate e prive di elementi invalidanti, ma ormai la questione concernente il referendum era chiusa. Con il pronunciamento della Suprema corte ogni voce dissidente tacque e la forma repubblicana non fu mai più messa in discussione. Tutto ciò è solo una parte di ciò che venne riferito da alcuni protagonisti dell’ epoca nel corso dei decenni. Negli anni successivi al 1946 furono raccolte altre dichiarazioni, come quella del gesuita Giuseppe Brunetta che narrò come nelle cantine del Quirinale egli stesso aveva visto casse contenti schede mai aperte, ma il loro peso non può essere che storico dal momento che politicamente non si può più tornare indietro.


Forse non sapremo mai che cosa accadde davvero in quei giorni così drammatici, che molto peso ebbero nella storia del Paese, ma di certo si può constatare quanto l’ Italia si divise, e con dolore, tra un Settentrione repubblicano e un Meridione monarchico, con un popolo che rimase unito soltanto nel desiderio di partecipare in massa per determinare il proprio destino, ambizione che a quasi ottant’ anni sembra purtroppo essersi spenta come una candela.

Peggio ancora, pare evidente l’ insincerità di una Repubblica che, dopo essere nata in un contesto dubbio e violento, per quanto si vanti di aver rotto i ponti con il Fascismo, negli anni volle al proprio servizio svariati ex funzionari fascisti, camicie nere e altre figure inquietanti che, benché accusate da Jugoslavia, Grecia, Albania, Francia e dagli angloamericani per crimini di guerra, mai furono processate in Italia o epurate, estradate all’ estero o giudicate dai tribunali internazionali: piuttosto, tutti loro furono reinseriti negli apparati dello Stato democratico con ruoli di primo piano, divenendo questori, prefetti, capi dei servizi segreti, deputati e ministri. Tra coloro che non si macchiarono di colpe ma che parteciparono al governo fascista e ne condivisero le idee vi furono ad esempio Giovanni Gronchi, sottosegretario al Ministero dell’ Industria nel primo governo Mussolini e poi terzo Presidente della Repubblica; Giuseppe Pella, Vice Podestà della città di Biella e poi secondo Presidente del Consiglio dei ministri e più volte ministro; Amintore Fanfani, che si espresse favorevolmente per il Manifesto della razza e le leggi razziali del 1938, poi padre costituente e Presidente del Consiglio dei Ministri; Aldo Moro, in gioventù di aperte simpatie fasciste avendo aderito ai Gruppi universitari fascisti, favorevole al sostegno italiano alla guerra civile spagnola e all’ intervento nel 1940 a fianco della Germania vedendo nel Fascismo il miglior sistema politico atto a garantire tale integrazione politica, civile e morale, ovvero cristiana, e poi a sua volta Presidente del Consiglio; Giovanni Spadolini, dalle giovanili simpatie per il Fascismo repubblichino fino al 1944, quando lamentò che avesse perso «a poco a poco la sua agilità e il suo dinamismo rivoluzionario, proprio mentre riaffioravano i rimasugli della massoneria, i rottami del liberalismo, i detriti del giudaismo», primo Presidente del Consiglio dei ministri non democristiano. Notevole fu poi il caso di Giuseppe Pièche, uomo di fiducia di Mussolini e poi di Mario Scelba, Presidente del Consiglio negli anni Cinquanta. E poi accusiamo la Monarchia di complicità con il Fascismo, in nome della democrazia tipicamente repubblicana! Altri personaggi cupi che nella neonata Repubblica divennero assai influenti venivano dall’ ala dura dei partigiani, come i comunisti Palmiro Togliatti e Pietro Secchia, di aperte simpatie sovietiche, e Francesco Moranino, capo partigiano responsabile di svariati delitti ed eccidi, prima tra tutte la strage della missione Strassera. Molti di loro si erano comportati come terroristi, avevano compiuto inaccettabili abusi ed eccessi in nome dell’ ideologia rossa, arrivando anche ad uccidere compagni d’ armi di differente orientamento politico, trovando poi protezione in svariati Paesi comunisti, come la Cecoslovacchia o la stessa Unione Sovietica. Tutte cose su cui grandi gruppi quali l’ Associazione Nazionale Partigiani d’ Italia tendono opportunamente a tacere in occasione del 25 aprile…

Giacomo con il Duca Aimone di Savoia;


Il 1 gennaio 1948 venne infine approvata nella Costituzione repubblicana la XIII disposizione transitoria, abrogata dopo ben cinquantaquattro anni nell’ ottobre 2002: «I membri e i discendenti di Casa Savoia non sono elettori e non possono ricoprire uffici pubblici né cariche elettive. Agli ex re di Casa Savoia, alle loro consorti e ai loro discendenti maschi sono vietati l’ ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale. I beni, esistenti nel territorio nazionale, degli ex re di Casa Savoia, delle loro consorti e dei loro discendenti maschi, sono avocati allo Stato. I trasferimenti e le costituzioni di diritti reali sui beni stessi, che siano avvenuti dopo il 2 giugno 1946, sono nulli.». Una simile norma ha rappresentato una vera e propria violazione delle regole democratiche del referendum, nel tentativo di salvaguardare la Repubblica dal pericolo di un ritorno alla Monarchia, tacciata di aver permesso la soppressione della democrazia prima, e l’ entrata in guerra poi. Quanto all’ esilio dei Savoia, peraltro, da qualche anno io faccio sempre notare che la vedova e i quattro figli di Mussolini vennero tranquillamente lasciati vivere in Italia, senza che nessuno mai pensasse di rivalersi su di loro espropriandoli dei beni e obbligandoli a lasciare il Paese come punizione per le colpe del famigliare defunto: ecco l’ ennesimo esempio dei due pesi e delle due misure tipiche dell’ ipocrisia della mentalità italiana!


Sotto un aspetto storico, le attuali generazioni di italiani non hanno idea che la Monarchia subì il Fascismo, che parimenti cercò di moderare, con il Re che contò sempre sulla lealtà delle forze armate, della burocrazia statale, della magistratura e della diplomazia benché il Fascismo potesse vantare una certa simpatia ad ogni livello della società, soprattutto tra la borghesia e la nobiltà che avversavano il Comunismo. All’ indomani della marcia su Roma del 28 ottobre 1922, Benito Mussolini ricevette come Presidente del Consiglio incaricato ben trecentosei voti di fiducia in Parlamento: quelli contrari furono solo centododici, e i deputati fascisti appena trentacinque. Il Duce salì al potere con una combinazione tra uso della forza, esibita e minacciata con la mobilitazione teatrale degli squadristi, e rispetto formale della legge: per assurdo, la Repubblica ha sempre dato tutta la colpa al Re, omettendo il fatto che i partiti democratici del tempo, dai popolari ai liberali, votarono tutti la fiducia al Fascismo. Ventun anni dopo, il 25 luglio 1943, nel pieno rispetto della via costituzionale Vittorio Emanuele III sostituì Mussolini e pose fine alla dittatura grazie al voto di sfiducia del Gran Consiglio del Fascismo, massimo organo del Partito Nazionale Fascista divenuto negli anni il supremo organo costituzionale del Regno d’ Italia, quando invece in Germania Adolf Hitler era capo sia dello Stato e che del Governo, ragion per cui nessuno riuscì a liquidarlo e la Germania, che era una Repubblica dal 9 novembre 1918, finì distrutta e divisa…

Le leggi razziali fasciste furono una vergogna di cui tutto il sistema italiano fu responsabile, ma occorre ricordare che Vittorio Emanuele, legato al suo ruolo di sovrano costituzionale, le firmò nel 1938 in quanto già vagliate dai competenti organi dello Stato secondo l’ iter tipico di un sistema parlamentare. Lui non era neppure razzista e men che meno antisemita, tanto che il medico di corte, il dottor Stukjold, era ebreo, come il ginecologo professor Valerio Artom, medico curante di Sua Altezza Reale la Principessa Maria José, moglie di Umberto, che il Sovrano nominò barone di Sant’ Agnese nel 1927 e che aiutò a espatriare in Svizzera. Vanto di Casa Savoia era stato, quasi un secolo addietro, la concessione per mezzo dello Statuto Albertino dei diritti civili e politici ai cittadini del Regno, compresi quelli di religione e discendenza ebraica. Per tali ragioni Vittorio Emanuele non perse l’ occasione per far presente a Mussolini il proprio dissenso, pur tenuto dallo Statuto alla firma di quei provvedimenti scellerati e constatando con frustrazione di avere poche possibilità di opporsi efficacemente, anche tenendo conto del fatto che in quel momento storico il dittatore era all’ apice della sua popolarità, adorato dalle masse e tenuto in gran conto all’ estero, e indicato quale «uomo della Provvidenza» dal Papa. Sulla contrarietà del Re si espresse anche il Conte Galeazzo Ciano nei propri Diari privati il 28 novembre 1938: «Trovo il Duce indignato col Re. Per tre volte, durante il colloquio di stamane, il Re ha detto al Duce che prova un’ infinita pietà per gli ebrei [...] Il Duce ha detto che in Italia vi sono 20000 persone con la schiena debole che si commuovono sulla sorte degli ebrei. Il Re ha detto che è tra quelli. Poi il Re ha parlato anche contro la Germania per la creazione della 4 divisione alpina. Il Duce era molto violento nelle espressioni contro la Monarchia. Medita sempre più il cambiamento di sistema. Forse non è ancora il momento. Vi sarebbero reazioni.».

In seguito, il 9 settembre 1943, dopo l’ accettazione dell’ Armistizio di Cassibile, dopo un’ iniziale esitazione il Sovrano fu convinto da Pietro Badoglio, nuovo Presidente del Consiglio succeduto al deposto Mussolini, circa la necessità di non cadere nelle mani tedesche e di abbandonare Roma per garantire la sopravvivenza delle istituzioni dello Stato in un luogo sicuro. Si narra che in un primo momento abbia risposto al capo di Governo: «Sono vecchio, anche se mi prendono cosa volete che mi facciano?». Badoglio, in seguito, scrisse: «Ora, se il Governo fosse rimasto a Roma, la sua cattura sarebbe stata inevitabile e i tedeschi si sarebbero affrettati a sostituirlo con un Governo fascista ed avrebbero subito provveduto ad annullare l’ armistizio. Bisognava ad ogni costo evitare questa disastrosa eventualità che avrebbe significato la completa rovina dell’ Italia.». Il Re, la Corte e il Governo si stabilirono a Brindisi: in Italia, dunque, e non all’ estero come tanti altri capi di Stato, ove il Monarca ricevette il riconoscimento internazionale e rappresentò lo Stato legittimo. Roma non poteva essere difesa con i suoi due milioni di abitanti, la presenza del Papa, tante opere d’ arte e monumenti storici. Sarebbe stata certamente una carneficina, e i nazisti, come successivamente dimostrato dalla strage delle Fosse Ardeatine, non avevano il pregio di porsi troppi scrupoli. La «fuga» del Re fu quindi un ritocco della propaganda nazista prima, e di quella antimonarchica poi: quello del Duce verso la Svizzera fu invece un effettivo fuggifuggi, e dall’ esito notoriamente drammatico e tuttora discusso poiché su di esso aleggia il sospetto di un ordine di eliminazione fisica impartito da Sir Winston Churchill al fine di celare adeguatamente i dettagli di una presunta corrispondenza precedentemente intrattenuta con il dittatore ormai caduto in disgrazia…

Giacomo con il suo Tricolore;


Che cos’ è quindi per me il 2 giugno?

Con una certa amarezza mi vedo costretto a rispondere di considerarlo uno dei più grandi fallimenti della storia italiana, da cui è scaturito un assetto istituzionale che ha mancato tutti gli obiettivi che si era posto, primo fra tutti quello di dare sovranità al popolo e rispettabilità alla nazione. Non v’ è infatti peggiore inganno del credersi sovrani ma di essere asserviti e vedere il proprio Paese in mano ad una conventicola di grotteschi cialtroni, dai vari Renzi e i Grillo, ai Di Maio e i Salvini, e così via discorrendo in un lungo elenco. Il diritto di voto è uno dei più importanti con cui la cittadinanza esercita quello di espressione, poiché per mezzo di esso si contribuisce alla conduzione della vita della Patria d’ appartenenza. Consente la sopravvivenza e la buona salute della democrazia, ma perché ciò avvenga non vi devono essere intimidazioni o pressioni di alcun tipo. Deve essere spontaneo, e consapevole. In un contesto come quello a cui si assistette nel 1946 non è possibile assicurare un esito veritiero e civile. Io che svolgo un mestiere, quello di autore, in cui l’ espressione è fondamentale, per quanto sia solamente l’ ultimo passaggio dato che è necessario innanzitutto individuare un argomento degno di interesse, sento molto l’ esigenza di una libera espressione, sia essa con la parola scritta o magari crociando una preferenza piuttosto che un’ altra sulla scheda elettorale. Se le elezioni non sono libere ma soggette a pressioni di qualsivoglia natura e provenienza, allora mi vedo costretto ad affermare che troverei più onesto vivere in una dittatura che ammette di essere tale piuttosto che in una democrazia fasulla ove il consenso popolare viene manipolato con la propaganda e con gli imbrogli di elezioni dall’ esito opportunamente indirizzato al fine di preservare l’ ordine costituito a beneficio di pochi oligarchi. A questo proposito faccio sempre l’ esempio delle contraddizioni della nostra attuale Costituzione, il cui Articolo 139 recita: «La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale.». Dopo quasi ottant’ anni molto di ciò che la carta costituzionale afferma dal 1948 può e dovrebbe essere adeguato ai tempi attualmente in corso, magari sbloccandone la rigidità che in un primo momento poteva essere comprensibile nella necessità di assicurare il consolidamento dello Stato in quegli anni turbolenti, e comunque questo particolare concetto di per sé contraddice l’ Articolo 1: «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.».

La Monarchia, malgrado la campagna di criminalizzazione scatenata contro di essa e la sconfitta militare, non si macchiò di colpe o crimini, e secondo gli stessi dati ufficiali al referendum raccolse quasi la metà dei voti del popolo italiano: un risultato certamente non da poco, anzi. Oggi si celebra il capolinea dell’ immagine pubblica del Belpaese, e mai come in queste ore sento il bisogno di esibire il mio amatissimo Tricolore!


Giacomo Ramella Pralungo

2 commenti:

Giacomo Ramella Pralungo ai funerali di Vittorio Emanuele, ultimo erede al trono d’ Italia

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