venerdì 2 agosto 2024

Il viaggio di Giacomo nel «Mondo piccolo» di Don Camillo


Giacomo Ramella a Brescello;

Da anni appassionato della celeberrima serie cinematografica di Don Camillo, una produzione italofrancese, Giacomo Ramella Pralungo, autore di narrativa fantascientifica e articoli storici, culturali e scientifici, si è recato a Brescello e Busseto, ove ha visitato i luoghi delle riprese e incontrato il figlio di Giovannino Guareschi, Alberto, che gli ha concesso un’ intervista…


Giacomo Ramella Pralungo ha uno sguardo entusiasta e un largo sorriso nel mostrare le fotografie scattate a Brescello e quella che lo ritrae con Alberto Guareschi. E lo ammette sinceramente: «Sono i luoghi della serie cinematografica con Fernandel e Gino Cervi, che ho visto molte volte sullo schermo, e lui è il figlio di Giovannino, il celebre giornalista e umorista parmense passato alla storia per la serie di ‘Mondo piccolo’ che ha per protagonisti Don Camillo e Peppone. E’ una persona molto cordiale, disponibile e preparata, di cui ho molto apprezzato la semplicità, l’ impegno e la serietà. Porta avanti splendidamente l’ eredità culturale del padre, che è davvero vasta e articolata e negli anni ha richiesto grande attenzione e ricerca. In questo è molto aiutato dalle due figlie, di cui ho conosciuto Antonia che è venuta molte volte nella mia Biella e ne ha un ricordo così bello e sentito che mi sono commosso. Li ammiro molto, li considero un vero esempio della valorizzazione della cultura che in Italia dà risultati importanti se svolta come si deve, e mai mi sarei aspettato di conoscere di persona figlio e nipote del grande Giovannino! Lui stesso fu un grande della letteratura italiana e, prima di tutto, un uomo ammirevole in quanto spirito libero sempre pronto a dare ascolto alla propria coscienza anziché alle convenzioni: una preziosa qualità che ha trasmesso ai suoi più celebri personaggi, Don Camillo e Peppone.».

Libreria di Giovannino Guareschi, Roncole Verdi;


Gli chiediamo come si sia imbattuto nel famoso scrittore della Bassa, al che l’ autore biellese risponde: «Nel 2010, quando ancora vivevo in Africa occidentale e tornavo a Biella in occasione delle festività natalizie, un caro amico che ora è morto mi prestò il libro ‘Don Camillo’, edito nel 1948 e primo della fortunata serie che lo avrebbe reso tanto popolare. Purtroppo le circostanze non mi permisero di leggere quel testo, che peraltro era abbondante, ma mi ripromisi di rimediare al più presto perché ne conoscevo il pregio. Qualche anno dopo, nel 2014, un altro amico mi diede una chiave USB con alcuni film scaricati dalla rete, molti di essi classici del cinema italiano ma anche straniero. Tra questi vi era la serie cinematografica con Fernandel e Gino Cervi tratta dai libri di Guareschi. La vidi e rimasi definitivamente colpito dal riuscito ritratto dell’ Italia del secondo dopoguerra che ne emergeva, fatto di ironia, simpatia e buonsenso in tempi duri e di forte polemica sociale e politica portata avanti dai pilastri della vita nazionale, ossia democristiani, comunisti e clero cattolico.».

Visita al Museo Peppone e Don Camillo;


Una passione che lo accompagna ancora oggi, e che nel tempo lo ha portato a fare molta ricerca su chi fu Guareschi e, nel 2023, a leggere finalmente «Don Camillo», preso in prestito alla biblioteca civica di Pollone, paesello confinante con il suo, onorando il vecchio amico defunto nel frattempo, mentre tra la fine dello stesso anno e l’ inizio del 2024 acquistò la riedizione dei sette libri di «Mondo piccolo» uscita in edicola: «Venni casualmente a sapere che sarebbero usciti uno per settimana, e non potei resistere! Guareschi ha uno stile di scrittura semplice e gradevole, nei suoi libri tocca temi quotidiani e, più in generale, tipici della vita delle persone, in cui tutti i lettori possono riconoscersi. Nelle vicende di ‘Mondo piccolo’ in particolare io vedo molte cose vere sull’ Italia e gli italiani del tempo, di cui gli anziani che ho conosciuto mi hanno a lungo e piacevolmente parlato raccontandomi i loro ricordi. Questo grande scrittore della Bassa è stato abile nel pennellare un quadro vasto e dettagliato in chiave ironica, essendo convinto che si debba imparare a ridere di sé stessi e ad agire secondo la propria coscienza, senza attenersi alle consuetudini o addirittura voltare gabbana a seconda del momento.».

Sotto il crocifisso parlante;


Il 28 dicembre 2023, prosegue il romanziere e articolista, il professor Alessandro Barbero andò in visita alla biblioteca civica di Biella per la presentazione di un suo libro, e un caro amico che in quei giorni era assessore alla cultura del comune di Biella e aveva conosciuto Alberto, gli diede la possibilità di contattarlo: «Ho tentennato per qualche tempo, per ovvie ragioni. Volevo essere adeguatamente preparato prima di stabilire un contatto, non volevo passare per il solito semplice ammiratore. Il mio amico assessore mi ha detto che Alberto, dalla morte della sorella Carlotta nel 2015, era rimasto solo con le due figlie a curare la Casa - Archivio Guareschi di Roncole Verdi, frazione di Busseto, in provincia di Parma, la stessa ove nacque Giuseppe Verdi e il padre Giovannino è sepolto. Solo a giugno di quest’ anno l’ ho infine contattato telefonicamente, avendo la bella opportunità di parlare con la figlia Antonia, e durante la cordiale conversazione è nata l’ idea di realizzare un’ intervista da far uscire sui giornali di Biella, complice una visita di Alberto nel 1993 nella nostra città per un evento culturale in occasione della quale fu ospite della municipalità. Insieme all’ intervista, che ho fatto uscire sia su ‘Newsbiella’ che su ‘Il Biellese’, ho realizzato anche un pezzo sui biellesi che negli anni hanno visitato il Museo Peppone e Don Camillo di Brescello.». Proprio alla fine della preparazione di questo lavoro sui giornali, Giacomo ha saputo che a Brescello si sarebbero tenuti i provini in previsione di un film su Guareschi diretto da Andrea Porporati, regista e produttore: «Mi sono immediatamente recato in treno a Brescello martedì 30 luglio, partecipando al provino, e appena finito ho visitato il Museo Peppone e Don Camillo. Il giorno dopo sono stato da Alberto a Busseto.».

La tomba di Guareschi, a Roncole Verdi;


Alla domanda di come sia stato visitare il paese cinematografico del parroco irascibile e manesco ma buono e generoso, dalla forte vena anticonformista, a Giacomo brillano gli occhi: «E’ stata un’ esperienza fondamentale per me, ciò che ho più volte visto in televisione e letto nel primo libro è infatti divenuto reale! Per prima cosa ho partecipato al provino per il film biografico ‘Giovannino Guareschi’, prodotto da ANELE in collaborazione con la RAI e diretto da Andrea Porporati, e che ricoprirà il periodo dal 1943 al 1952, cioè dall’ arresto e la prigionia nel lager nazisti fino all’ uscita del film ‘Don Camillo’. Poi ho visitato il Museo Peppone e Don Camillo, ricco di materiale fotografico e di scena come gli scatti durante le riprese con didascalie che spiegano le tappe fondamentali della produzione e oggetti di scena come il tavolo che il parroco tira in testa ai giovani comunisti venuti dalla città, la grande tonaca del terzo film, il bastone di pioppo che si porta in Vaticano, il fucile, le biciclette e il sidecar, il simbolo della falce e martello che il gruppo comunista porta con sé in Unione Sovietica. La direzione del Museo ha cercato di avere anche il crocifisso parlante, ma il parroco è stato inflessibile e oggi è possibile scorgerlo in una saletta alla sinistra dell’ ingresso della chiesa parrocchiale. Dopo il Museo ho visitato la piazza, in cui la parrocchia e il comune che si guardano dai due lati opposti; sono stato in chiesa, ove ho visto e toccato il leggendario crocifisso parlante, esperienza molto forte! Ho visto poi le statue di Don Camillo e Peppone che si guardano da lontano, passeggiato nei celebri viali con i portici, sono stato sotto la campana Sputnik, ho visto il carro armato e la locomotiva, e infine ho visitato la Madonna del Borghetto. Quando sono arrivato al Bed and breakfast ove mi ero prenotato ho poi avuto una bella sorpresa: sorgeva nel luogo in cui in ‘Don Camillo e l’ onorevole Peppone’ partono con il carro armato che era rimasto nascosto sotto un cumulo di fascine fin dal 1945, e di cui ora devono urgentemente disfarsi per evitare guai con le autorità (risata)! Insomma, quando rivedrò i film e inizierò a leggere i libri sarò personalmente coinvolto, ricorderò luoghi che ho visto con i miei occhi! Questo viaggio è stata un’ opportunità di arricchimento che ogni vero estimatore di quest’ epopea dovrebbe fare, è un po’ come andare a Gerusalemme e dintorni o alla Mecca per ebrei, cristiani e musulmani.».

Con Alberto Guareschi, Roncole Verdi;


E, soprattutto, questo viaggio lo ha condotto all’ incontro con la famiglia Guareschi, che Giacomo narra sorridendo con entusiasmo: «E’ stato davvero un grande onore, ve lo garantisco! Non me lo sarei mai aspettato, sono sincero. Ho stretto la mano di Alberto e visitato la Casa - Archivio, posta nella vecchia osteria pensata e aperta da Giovannino nel 1957 e che oggi tramanda il ricordo della sua opera letteraria e culturale. Ho dialogato con Alberto ricordando suo papà e ciò che ha rappresentato: secondo lui fu molto apprezzato dal pubblico, e lo è tuttora, perché ebbe l’ idea geniale di ‘inventare il vero’, cioè di basarsi sui valori semplici e concreti della vita e ambientarli nelle realtà locali, in cui noi tutti viviamo, immaginando il meno possibile. Perfino i suoi personaggi erano basati su cose e persone vere. In questo abbiamo entrambi concordato che era molto vicino a Raimondo Vianello e Sandra Mondaini, che ironizzavano sulle cose quotidiane, ricche di significato, e addirittura interpretando sé stessi. Abbiamo anche toccato il tema della prigionia nei lager nazisti: Giovannino rifiutò di arruolarsi per la Repubblica Sociale Italiana e fu mandato a Częstochowa e Beniaminów, in Polonia, e poi a Wietzendorf e Sandbostel, in Germania, mentre il mio bisnonno paterno dopo l’ 8 settembre 1943 fu internato ad Auschwitz perché italiano residente in Francia, che allora era territorio del Terzo Reich. Questo ci ha portati a condividere il pensiero secondo cui le dittature o totalitarismi sono sempre fenomeni che coinvolgono più persone, sarebbe riduttivo dare tutta la colpa al solo dittatore perché non può agire da solo, senza una schiera di gerarchi anche più fanatici di lui o una folla osannante sempre pronta ad acclamarlo. Gandhi in India lo confermò con la disobbedienza civile contro l’ Impero britannico, la maggiore potenza dell’ epoca.». E una delle vignette più suggestive di Giovannino toccò proprio la contraddizione dell’ antifascismo italiano, dettaglio che Giacomo riferisce divertito: «Alberto mi ha raccontato di questa caricatura in cui Giovannino ritrasse due uomini in mongolfiera su due Italie distinte, una fascista e l’ altra antifascista. Questi due personaggi osservano dall’ alto e in sicurezza l’ evolversi della situazione, evidentemente in attesa di fare l’ atterraggio nel luogo più opportuno (risata)! Proprio come disse Sir Winston Churchill, che in quegli anni ironizzò sul fatto che un giorno in Italia vi fossero quarantacinque milioni di fascisti mentre il giorno successivo vi fossero quarantacinque milioni di antifascisti e partigiani benché dai censimenti non risultassero novanta milioni di italiani…».

Alberto dedica le copie dei libri di Don Camillo;


Ci mostra i sette libri della serie di ‘Mondo piccolo’, con una certa emozione: «Questo incontro mi ha veramente toccato il cuore. E’ stata innanzitutto un’ esperienza personale. Alberto ha firmato una dedica a tutte le mie copie dei libri di Don Camillo, che ora sento infinitamente arricchite. Io gli ho donato una copia del mio ‘L’ angelo custode’, che ho scelto con attenzione tra tutti gli altri, ovviamente accompagnato da dedica. Alberto mi ha detto che l’ avrebbe inserito nella biblioteca della sua associazione, il Club dei Trentatré di cui peraltro è membro Giuseppe Sacchi, il fondatore di Telebiella, la prima TV privata italiana, e guarda caso di Biella! Sacchi fu peraltro uno dei pochi a presenziare al funerale di Giovannino, che ovviamente fu evitato dalle persone importanti e famose. Ho davvero avuto un’ opportunità rara e preziosa, non mi sembra vero! Sono onorato davvero. Sua figlia Antonia è una piacevole conversatrice, mi ha parlato del bel ricordo di Biella e delle sue amicizie tra i biellesi, il mondo è davvero piccolo! Sono veramente lieto di aver incontrato persone magnifiche con cui ho toccato molti argomenti di grande interesse, sento di aver fatto un’ esperienza fondamentale nel mio percorso di vita e culturale: sono queste le cose che fanno crescere! Ho imparato molto e iniziato a comprendere di più la vastità del cosiddetto ‘Mondo piccolo’ che Giovannino ci presentò con entusiasmo e amore dal 1948 in poi.».

Il primo libro della serie, con dedica;


Dopo l’ incontro con Alberto e Antonia, il giovane autore di Biella si è recato al vicino cimitero, visitando la tomba di Giovannino. Ne parla con vivo coinvolgimento: «E’ stata una tappa assolutamente importante, che non poteva mancare. Ha davvero completato l’ esperienza del mio viaggio. Dopo aver calcato i luoghi della serie cinematografica sulla via di Fernandel e Gino Cervi e aver incontrato suo figlio, mi sono recato al suo luogo di sepoltura. Volete sapere che cosa ho provato alla sua tomba? Ho percepito una grande forza osservando la lapide con la scultura del suo volto dai tratti duri, gli occhi espressivi e i celebri folti baffoni. Ho avvertito quanto quest’ uomo dovesse essere saldo e convinto di ciò che pensava, faceva e diceva. Credo che la sua sola presenza imponesse rispetto, e al tempo stesso emanasse bontà, positività e simpatia.».

L’ intervista su «Il Biellese»;


Per il giovane autore di Biella, Guareschi è una firma di cui l’ Italia dovrebbe andare particolarmente fiera, un degno esempio del nostro importante e vasto patrimonio culturale e letterario, eppure, come spesso accade, non viene valorizzato quanto meriterebbe dalle istituzioni culturali e politiche: «Ne ho parlato con Alberto, che subito ha concordato aggiungendo che suo padre paga tuttora il fatto di non essersi mai piegato agli schemi e al sistema, dava infatti fastidio perché ragionava con la propria testa, non seguiva le consuetudini e diceva sempre quello che pensava, spesso esprimendo forti critiche alle alte personalità: è noto che con Alcide De Gasperi ebbe rapporti piuttosto tesi! Le sue opere hanno venduto venti milioni di copie e sono state tradotte in molte lingue. Hanno raggiunto tutta l’ Europa così come l’ America e l’ Asia. Insomma, parliamo di un autore arrivato ad un pubblico veramente vasto e variegato a cui ha saputo comunicare qualcosa di importante. Se i dignitari politici e culturali lo disdegnarono, la gente comune lo apprezzò molto. Fu uno spirito libero, un anticonformista, ma di fermi principi e sempre in polemica con i potenti, fossero essi democristiani, comunisti e sacerdoti cattolici: per lui infatti il primo dovere di una persona è ascoltare la propria coscienza, agire secondo la propria esperienza diretta anziché secondo le consuetudini o ciò che dicono gli altri. Amante della libertà, devoto cattolico, convinto monarchico e patriota, reduce dei lager nazisti: le sue molte opere toccarono tutti questi temi con semplice e gradevolissima ironia, era infatti convinto che ridere fosse importante e che far ridere fosse una cosa seria. Nelle nostre scuole, però, non viene mai insegnato come si dovrebbe, neppure al liceo se non in occasione di qualche rara eccezione costituita da qualche oculato insegnante o dirigente scolastico che prende l’ iniziativa! Dovrebbe invece avere un degno posto accanto ad Alessandro Manzoni e tanti altri autori classici italiani anche solo per l’ importanza che il principio dell’ umanità e del libero arbitrio riveste nelle sue narrazioni, specialmente l’ epopea di Don Camillo...».

venerdì 31 maggio 2024

Giacomo e i misteri delle origini del mondo


Giacomo Ramella Pralungo, autore di narrativa fantascientifica e di articoli storici, culturali e scientifici, è da sempre affascinato dalla storia del mondo e del genere umano, con una predilezione per l’ evo antico e i numerosi misteri circa le origini e lo sviluppo dei più remoti popoli della Terra. Una passione che lo ha portato ad avvicinarsi all’ archeologia misteriosa, e che ha ispirato le sue opere di narrativa.


Lei è da sempre un grande appassionato di storia e archeologia, interessanti discipline che ha unito alla sua disposizione per la narrativa.


«Verissimo, la storia mi appassiona fin da quando ero in terza elementare. Ricordo molto bene le lezioni di paleontologia tenute dalla mia maestra di storia e geografia, l’ indimenticata signora Cinzia Bossi, che ci descrisse la teoria del Big Bang e, in seguito, la graduale evoluzione della vita sulla Terra, per poi passare alla Preistoria e ai primi popoli come Sumeri ed Egizi. Quando ci parlò delle piramidi egizie, in particolare, rimasi davvero colpito da questa grande realizzazione di architettura e ingegneria che tuttora sfida con forza scienza e tempo. La fantascienza, poi, è un genere letterario che scoprì circa un anno dopo, leggendo un racconto sull’ antologia di lettere, non trattato durante le lezioni, che narrava di un bambino tenuto in stasi per lungo tempo in una sorta di camera di metallo e vetro simile ad un letto e che si risvegliava in una città del futuro, in cui vide che molte cose erano cambiate dai suoi tempi benché le dinamiche fondamentali della vita quotidiana e della mentalità delle persone fossero rimaste più o meno le stesse: questo mi fece pensare molto al concetto di modernità e continuità con il passato. Crescendo, quando iniziai a scrivere intorno ai dodici anni, unì spontaneamente tra loro storia e fantascienza: non solo perché ero personalmente animato da queste due grandi passioni, ma anche perché la fantascienza di per sé è il genere ideale con cui esplorare tematiche scientifiche e di riflessione su tutto ciò che riguarda l’ umanità e le sue infinite possibilità, da concetti sociali a quelli culturali, senza tralasciare quelli psicologici e persino religiosi. Più in generale, la letteratura è un riflesso della storia e quindi della società.».


L’ archeologia misteriosa è un’ altra disciplina che molto la coinvolge.

La Sfinge e la piramide di Chefren, a Giza;


«La scoprì a quattordici anni, leggendo ‘Ufo e alieni - Entra nel mondo del mistero’, un libro di Colin Wilson, un noto autore britannico. L’ archeologia misteriosa prende in considerazione teorie particolari, spesso non suffragate da prove e di conseguenza non accettate dalla comunità scientifica convenzionale, come l’ esistenza di antiche civiltà scomparse sviluppatesi in continenti perduti come Atlantide o Mu, contatti diretti tra popoli stanziati in luoghi opposti del mondo, come Egizi e Maya, o un contatto tra popoli extraterrestri e le antiche civiltà umane, influenzandole e spesso venendo adorati come divinità perché in possesso di conoscenze scientifiche e tecnologiche di cui i nostri antenati erano ancora all’ oscuro. La maggioranza degli scienziati rigetta le teorie sostenute dall’ archeologia misteriosa, classificandole come fantasiose dissertazioni, prive di qualsiasi fondamento scientifico e architettate per vendere libri in proposito piuttosto che per confermare ipotesi, mentre gli studiosi di archeologia del mistero affermano che conservando la massima apertura mentale si può evitare di escludere a priori determinate ipotesi che in seguito ad indagini approfondite possono risultare fondate, e che spesso la dottrina tradizionale fa fatica ad accettare nuove teorie che mal si inseriscono nel sistema di conoscenze acquisite, soprattutto se le nuove ipotesi comportano una ridefinizione di concetti tradizionali. Io sono sempre stato interessato a ogni possibile spiegazione di un qualsivoglia mistero, e da anni ripeto che tutto è possibile fino a prova contraria benché al tempo stesso sia necessario dimostrare una qualunque ipotesi con indizi e prove ragionevoli.».


Che cosa pensa sulle origini più antiche del mondo e del genere umano?

Rappresentazione artistica di antiche e misteriose rovine;

«E’ un dato di fatto che più il passato è lontano e più il ricordo si fa vago e indefinito. Succede anche a noi, nella nostra vita: rammentiamo più facilmente gli eventi vissuti cinque o dieci anni fa, mentre i nostri primi ricordi d’ infanzia si fanno molto più essenziali e imprecisi. Il pianeta Terra ha un’ età pari a circa quattro miliardi e mezzo di anni, mentre gli ominidi da cui discendiamo apparvero tra i sette e i cinque milioni di anni fa, parliamo quindi di un periodo di tempo molto lungo, che la nostra mente a malapena comprende con un certo sforzo e di cui quindi sappiamo poco o niente. La stessa storia antica presenta vari misteri perché disponiamo di poche fonti, molte testimonianze sono andate perdute un po’ per lo scorrere del tempo e un po’ per i disastri ambientali, le guerre e le censure umane. E la religione per lungo tempo ha imposto la propria versione della storia, scoraggiando la ricerca perché vista come una maledizione e un’ eresia che avrebbe allontanato dall’ entità divina di riferimento. Io penso che ci manchino molte conoscenze di base, che il passato sia in larga parte da scoprire ancora oggi e che sia più complesso, ampio e sfaccettato di quanto crediamo e di come lo studiamo a scuola. Io dico sempre che sono molte le conoscenze fin qui acquisite che dovrebbero essere riviste e studiate con la massima attenzione e un atteggiamento equanime, libero da preconcetti.».


Per esempio?


«L’ evoluzione stessa della vita sulla Terra poggia su elementi che solo in parte sono stati spiegati. L’ influenza ambientale è solamente uno dei tanti fattori che la determina. E l’ evoluzione umana in particolare è per ovvie ragioni il mistero su cui la ricerca si è concentrata con maggiore attenzione. Tra l’ estinzione dei dinosauri, sessantacinque milioni di anni fa, e l’ apparizione degli ominidi è trascorso un periodo sufficientemente lungo per consentire l’ evoluzione di almeno una civiltà preumana, ipotesi che per il momento è reputata inverosimile. Gli Egizi e i Sumeri realizzarono piramidi e ziqqurat, opere dinnanzi alle quali noi tuttora impallidiamo pur avendo una scienza architettonica e ingegneristica superiore, e avevano conoscenze astronomiche davvero notevoli in un’ epoca in cui i telescopi e tecnologie simili non esistevano. Peraltro, i Dogon, una piccola etnia del Mali che conta circa duecentoquarantamila individui, negli Anni Trenta destarono a loro volta stupore in Occidente per le loro impressionanti conoscenze astronomiche, sulle cui origini sono sorte animate discussioni. Lo yoga, i cui benefici psicofisici oggi sono una realtà comprovata in sede scientifica, ha origini che affondano nella leggenda. Molti popoli, dall’ Europa al sudest asiatico, parlano di continenti e civiltà perdute, e quasi tutte le civiltà antiche avevano la propria versione del Diluvio universale, scatenato da una o più divinità. Esistono poi antiche raffigurazioni rupestri e oggetti in svariati luoghi del mondo che, secondo gli ufologi moderni, sarebbero indizi relativi ad antichi visitatori alieni giunti sulla Terra…».


Nell’ ottobre 2022 lei ha dedicato il suo sito, «Due passi nel mistero», a questo genere di argomentazione.

«Oh sì. L’ ho voluto proprio per esplorare queste tematiche, che se affrontate con ragionevolezza possono portare a considerazioni davvero molto interessanti. Negli articoli pubblicati finora ho parlato della possibilità dell’ esistenza di almeno una civiltà preumana, della teoria secondo cui antichi visitatori alieni entrarono in contatto con i primi popoli terrestri, dell’ ipotesi di civiltà perdute e del mistero dei giganti, esseri umani dalle dimensioni notevoli, prevalentemente guerrieri e costruttori, descritti in numerose mitologie come uomini speciali o precursori del genere umano creati dagli dei oppure figli di angeli e donne mortali. In questi testi valuto tanto gli indizi a supporto di queste tesi quanto le opinioni contrarie, in modo tale da realizzare un’ argomentazione analitica e opportunamente ragionata.».


Oggi, 1 giugno, è la Giornata Mondiale del Genitore, celebrazione internazionale istituita nel 2012 dall’ Assemblea delle Nazioni Unite per sottolineare l’ importanza della figura genitoriale nella vita dei bambini di tutto il pianeta.


«Porgo i miei auguri a tutti i genitori, e colgo l’ occasione per omaggiare i miei. Devo molto di ciò che sono diventato e buona parte dei miei interessi a mio padre e mia madre, entrambi persone straordinarie, fuori dal comune, che hanno sostenuto e condiviso l’ importanza della cultura e delle buone maniere, insegnandomi peraltro il valore della consapevolezza e dell’ equanimità, oltre che un atteggiamento libero dagli schemi e dai dogmi preconcetti.».


La ringraziamo molto.


«Grazie infinite a voi, è sempre un vero piacere per me.».

mercoledì 14 febbraio 2024

Giacomo Ramella Pralungo ai funerali di Vittorio Emanuele, ultimo erede al trono d’ Italia

Il feretro di Vittorio Emanuele condotto in Duomo;


In virtù di problemi tecnici dei giorni scorsi, e scusandoci per il ritardo, pubblichiamo questo articolo sulla presenza di Giacomo Ramella Pralungo, autore di narrativa fantascientifica e articoli di storia, archeologia e mistero, ai funerali di Vittorio Emanuele di Savoia, ultimo erede al Trono italiano in rispetto al proprio orientamento monarchico.


Vi è una folla numerosa all’ esterno del Duomo di Torino, a cui si accede con biglietto di invito: si contano quattrocento persone all’ interno e oltre trecento all’ esterno. La giornata è fredda e piovosa. A rendere omaggio al Principe di Napoli ci sono rappresentanti dell’ aristocrazia e del bel mondo, e ovviamente reali come il Principe sovrano Alberto II di Monaco, il nipote Serge di Jugoslavia e Carlo di Borbone, oltre che l’ ex Regina di Spagna Sofia. Presenti anche l’ Arciduca Martino di Asburgo Lorena, il Ganduca George di Russia e Fuad d’ Egitto come rappresentante della famiglia reale egiziana. Non c’ erano rappresentanti della famiglia reale britannica, che comunque ha inviato una calorosa lettera di condoglianze. Assenti per motivi di salute le sorelle del defunto, Maria Gabriella e Maria Beatrice. Vi sono inoltre le delegazioni delle Guardie d’ Onore del Pantheon, un’ associazione sorta nel 1878 per prestare il servizio di guardia alle tombe dei monarchi italiani presso il Pantheon e mantenere viva la memoria legata a Casa Savoia, al Risorgimento e alle tradizioni militari nazionali. Sono invece assenti le istituzioni, dal Presidente della Regione Piemonte al sindaco di Torino. Giacomo Ramella Pralungo scuote il capo, fermamente contrario alla grande mancanza di rappresentanti dello Stato: «Il solo esponente dell’ attuale governo ad essersi presentato ieri alla camera ardente a Venaria è stato il Presidente del Senato Ignazio La Russa, che ha reso omaggio al feretro e si è stretto in un abbraccio con il figlio Emanuele Filiberto prima di salutare il resto della Famiglia, dicendo di essere venuto in visita sia pubblica che privata e che ci sono luci e ombre, che non bisogna dimenticare che grazie ai Savoia c’ è stata l’ unità d’ Italia. I dignitari della Repubblica già disertarono il funerale di Re Umberto II all’ abbazia di Hautecombe, nella Savoia francese di cui la Famiglia Reale è originaria, con la sola eccezione di Maurizio Moreno, console generale d’ Italia a Lione: con la loro latitanza, i vertici dello Stato mandano un messaggio di presa di distanza dal nostro passato e dalla storia italiana, come se gli ottantacinque anni di Monarchia non fossero mai trascorsi. I francesi hanno avuto due Monarchie, due Imperi e cinque Repubbliche eppure hanno preservato una forte continuità storica e istituzionale: li considero un grande esempio da cui dovremmo imparare la giusta lezione!».

Lo scrittore monarchico si guarda un po’ intorno, poi riprende a parlare con tono basso, ma fermo: «Sono sempre stato monarchico, e da quando avevo vent’ anni mi sono avvicinato ai Savoia Aosta poiché credo che anche dopo la proclamazione della Repubblica questo particolare ramo della Dinastia abbia portato avanti degnamente la tradizione della Monarchia, con precisione e costanza. Sua Altezza Reale il Duca Amedeo, venuto a mancare nel 2021 e che stimavo grandemente, e Suo figlio Aimone, che il 4 giugno 2022 incontrai a Superga per la messa in suffragio del Padre, hanno sempre denotato intelligenza, garbo, misura, modestia e preparazione e io Li reputo pienamente all’ altezza di portare la Corona italiana. Il Principe Vittorio Emanuele ha invece avuto una filosofia di vita più discutibile, poco prudente per la Sua posizione, tuttavia al di là delle cronache giudiziarie e degli scandali, nonché della disputa dinastica con gli Aosta, rimaneva il figlio del Re, il grande Umberto II, e l’ ultimo Principe ereditario del Regno d’ Italia. Come tale, io l’ ho sempre sinceramente rispettato e credo che oggi si debba andare oltre le polemiche, dinastiche o politiche che siano.».

Giacomo Ramella Pralungo;


Gli chiediamo quanto sia importante per lui essere qui oggi, lui contempla le molte persone presenti e sorride riflettendo bene e valutando con cura le parole: «Ha la sua importanza, certamente. Alle mie orecchie sono giunti molti commenti critici mossi in nome della Repubblica e dell’ antifascismo su questi funerali qui a Torino, che storicamente è stata culla della Casa Reale tanto che la Diocesi ha accolto la Sua richiesta non soltanto perché un funerale non si nega a nessuno, ma ricordando che è un momento di preghiera, non uno strumento per giudicare le persone, soprattutto in modo politico. Tutta questa asprezza mi ricorda quanto sappiamo essere settari e poco precisi noi italiani: ricordiamoci che il Principe era una persona che ha scontato senza colpe un vero e proprio ‘reato di cognome’, pagando al posto di altri e venendo sempre chiamato a scusarsi per l’ operato di Suo nonno, Re Vittorio Emanuele III. I Savoia sono stati usati come capro espiatorio di quanto ha fatto il Fascismo, e ciò che gli antimonarchici ovviamente omettono è che un Sovrano costituzionale, come allora fu Re Vittorio Emanuele, era tenuto secondo la Costituzione vigente a convalidare l’ operato del Suo governo, che per quanto dittatoriale procedeva secondo l’ iter procedurale in vigore. Anche quando si impose nel 1922 portò avanti un misto tra pressioni e rispetto formale della legge. Era il Parlamento ad avere il potere di opporre un veto, dando al Re la possibilità di procedere con la deposizione del Duce, ma ciò non avvenne fino al 25 luglio 1943. Vittorio Emanuele III avrebbe potuto abdicare e salvare il proprio buon nome manifestando chiaramente il proprio dissenso, ma i fascisti avrebbero instaurato una Repubblica di cui avrebbero avuto pieno controllo, agendo finalmente con totale libertà, cosa che in effetti avvenne con la Repubblica Sociale nel 1943, sebbene fosse uno Stato fantoccio nelle mani del Terzo Reich.». Dopo qualche istante di riflessione, aggiunge: «Tornando al Principe, la Sua figura era nota soprattutto per le cronache giudiziarie fin dagli Anni Settanta, quando venne indagato per traffico internazionale di armi in alcuni Paesi mediorientali che erano sotto embargo quando era intermediario per conto della Agusta S.p.A., e per il ferimento mortale del giovane Dirk Hamer nel 1978 all’ isola di Cavallo, in Corsica, per poi essere protagonista nel 2006 dell’ inchiesta Vallettopoli, in cui fu imputato per corruzione, concussione, gioco, falso e sfruttamento della prostituzione, tutte accuse da cui fu assolto mentre sul piano più personale fece vari scivoloni in occasione di determinate interviste rilasciate negli anni precedenti al ritorno in Italia. Eppure stato l’ ultimo pretendente al Trono d’ Italia e io sono qui per rispetto verso l’ istituzione della Monarchia e in ricordo della nostra storia. Come Sua Altezza Reale il Duca Aimone ha così bene espresso nel Suo messaggio alla Famiglia, con la morte di Vittorio Emanuele, così come avvenuto per quella di Suo padre Amedeo, si è chiuso un capitolo della storia sia d’ Italia che della Famiglia Reale.».

Nato a Napoli nel 1937 dagli allora Principi di Piemonte, Umberto e Maria José del Belgio, Vittorio Emanuele fu proclamato alla nascita «principe dell’ Impero» e, secondo fonti diplomatiche britanniche, nel 1938 la madre si sarebbe accordata con il gerarca fascista Rodolfo Graziani e il capo della polizia Arturo Bocchini per tentare un colpo di Stato a opera di alcuni reparti delle forze armate, con Pietro Badoglio come comandante in capo, in un’ azione che sostituisse Benito Mussolini con un «avvocato milanese antifascista», probabilmente Carlo Aphel, e che costringesse Re Vittorio Emanuele III ad abdicare in favore di Umberto, a sua volta concorde con la moglie per rinunciare subito al trono in favore del piccolo Vittorio Emanuele: la stessa Maria José sarebbe stata nominata reggente del Regno in deroga allo Statuto Albertino, fino al compimento dei ventuno anni del giovanissimo sovrano. Questo piano, che coinvolgeva anche Italo Balbo, Galeazzo Ciano, antitedesco e ambizioso genero del Duce, tuttavia non andò oltre un incontro preliminare al castello di Racconigi e alcune riunioni a Milano, e trapelò solo molti anni dopo. Vittorio Emanuele continuò la sua vita normalmente, secondo i canoni di un erede al trono, e nel 1946, a seguito del referendum istituzionale del 2 giugno che vide l’ avvento della Repubblica, seguì Re Umberto II suo padre che lasciò volontariamente l’ Italia per evitare che gli scontri tra monarchici e repubblicani sfociassero nella guerra civile, venendosi però sbarrare la via del ritorno da un esilio sancito Tredicesima Disposizione Transitoria e finale della Costituzione della Repubblica. Dopo alcuni anni trascorsi in Portogallo, a Cascais, si trasferì in Svizzera con la madre, allontanatasi dal padre a cui era unita da un matrimonio combinato e infelice. Svolse l’ attività di intermediario finanziario, stringendo amicizie e legami d’ affari con grandi industriali, in particolare la famiglia Agusta. Nel 1972 sposò Marina Doria, contrariamente al parere del padre che gli negò il cosiddetto Regio assenso, il consenso formale necessario secondo le leggi dinastiche che i Savoia avevano adottato a fine Settecento, e secondo molti monarchici ciò gli avrebbe precluso il rango di erede dinastico automaticamente a vantaggio del cugino Amedeo di Aosta e dei suoi eredi, con cui nei decenni successivi fu in rotta. Nel 2002, quando venne abolita la norma costituzionale che obbligava gli ex sovrani, le loro consorti e i discendenti maschi all’ esilio, tornò in Italia dopo cinquantasette anni, e con un comunicato emesso da Ginevra dichiarò di accettare la fine della Monarchia.

Il Principe Vittorio Emanuele di Savoia;


«Negli anni, il Principe è stato una figura controversa, basti pensare alle risposte poco meditate ai giornalisti a domande relative alle leggi razziali firmate dal Re Suo nonno nel 1938 o sulla Sua disponibilità a giurare fedeltà alla Repubblica per tornare in Italia.» racconta l’ autore «Ma per mezzo degli ordini dinastici ha anche portato avanti opere benefiche verso i più poveri e i meno abbienti in Italia e nel mondo, e si è impegnato per la memoria della Sua Casa. Inoltre, va precisato che visse un esilio ingiusto, un bando incomprensibile e di mentalità medievale se pensiamo che nel 1946 aveva solo nove anni e mai aveva rivestito ruoli istituzionali in base ai quali potesse essere valutato. Oltre che su tutto ciò, io ho sempre riflettuto molto sul fatto che i figli e i nipoti di Benito Mussolini, a cui nessuno ha mai giustamente domandato di scusarsi per le sue azioni quali l’ instaurazione della dittatura, la promulgazione delle leggi razziali e l’ intervento in guerra a fianco della Germania con tutto ciò che purtroppo ne conseguì, hanno sempre vissuto tranquillamente in Italia, e Alessandra ha persino avuto un seggio nel Parlamento della Repubblica antifascista! Sono due pesi e due misure, è più che evidente...».

Giacomo dà un’ occhiata alle persone intorno a sé, dicendo di aver chiacchierato con molti di loro e di essere rimasto soddisfatto: «Vi sono alcuni monarchici, repubblicani e semplici curiosi, e tutti quanti, ma proprio tutti, hanno detto di essere qui per rispetto e fatto commenti concilianti, poiché Vittorio Emanuele era estraneo a molto di ciò che si è detto e che Torino per circa mille anni è stata culla della Sua Casa. Superga pertanto è la tomba della Sua famiglia. Il popolo ha dimostrato più saggezza dei politici della Repubblica e dei mezzi di comunicazione, indipendentemente dalle preferenze individuali.». Il feretro del Principe, recante la bandiera con lo scudo sabaudo, viene fatto uscire, e l’ autore di fantascienza e storia aggiunge: «Vittorio Emanuele non è mai stato Re, un militare, un diplomatico o altro. Dissento con certe sue posizioni e dichiarazioni, nonché con il Suo stile di vita più da uomo mondano che da aristocratico in senso stretto. Non ha lasciato un segno nella storia italiana e della Sua Casa, tuttavia apparteneva ad una stirpe che ha vissuto una parte molto importante della nostra storia, partendo dall’ anno 1000 fino al 1946. Tanto per fare un esempio, i Savoia furono protagonisti dell’ unità d’ Italia ponendosi sullo stesso piano delle altre Case Reali d’ Europa. Se la Monarchia fosse rimasta in vigore dopo il referendum, con l’ educazione tipica di un erede al Trono sarebbe un giorno divenuto un Re adeguatamente preparato al compito, ma così non fu e ora nel mio cuore sento che tocca al Duca Aimone e ai Suoi giovani eredi proseguire con la tradizione, e chissà che con un po’ di fortuna...».

lunedì 25 dicembre 2023

La ricorrenza del Natale tra forma e sostanza

Giacomo Ramella Pralungo;


Giacomo Ramella Pralungo, autore di narrativa fantascientifica e articoli storici, culturali e scientifici, desidera trasmettere i propri auguri accompagnati da una riflessione sul tema del Natale con la seguente lettera.


Occhieppo Superiore, 25 dicembre 2023


Anche quest’ anno è arrivato il giorno che per gli amici cristiani è Natale, e come sempre sono iniziati con largo anticipo i preparativi, tra acquisti per regali, pranzi e cenoni, addobbi e così via discorrendo. Sebbene sia soltanto la seconda festività più importante della cristianità, la principale è infatti quella pasquale, la ricorrenza del Natale è la più affascinante e sentita da tutti, complice il periodo invernale che a differenza di questi ultimi anni un tempo portava la neve e quindi induceva a radunarsi tra le calde mura di casa, attorno ad un bel camino.

Come è risaputo, io mi sono allontanato dal Cristianesimo nel 2004, appena compiuti i vent’ anni, assumendo una posizione super partes nei riguardi delle religioni interessandomi più propriamente ad una libera spiritualità, e continuo tuttora a rispettare Gesù come libero pensatore e maestro spirituale svincolato dagli schemi della tradizione ebraica del suo tempo, mosso da un desiderio altruistico. Attualmente ho il piacere di continuare a leggere e documentarmi in materia di religione, ma con un occhio più indipendente e analitico, e anche valutando i testi sacri trovo per mia stessa sorpresa interessanti basi di riflessione in alternativa alle consuetudini e notando determinate contraddizioni che con un atteggiamento più da credente nella maggior parte dei casi non si considerano. Una delle cose che da irreligioso più trovo evidenti è il modo in cui chi invece continua a definirsi cristiano credente, per quanto non strettamente praticante, «si ricorda di santificare le feste», come dice il terzo comandamento.

Festa natalizia;


Ormai da molto tempo noto che già a novembre la gente inizia a pensare ai preparativi natalizi, e con l’ avvento dei mercatini si lancia a capofitto nelle relative spese, in una gara all’ acquisto migliore e più economico in modo tale da presentarsi «come si conviene» a questa fatidica data. Fin da quando ero bambino, ricordo che il Natale ha sempre portato questa frenesia, non dico quindi nulla di nuovo, tuttavia oggi si tende molto di più a festeggiarlo ma senza considerare il suo significato e valore, e neppure l’ episodio religioso da cui trae la sua origine, che ovviamente è la nascita di Gesù. Io sono cresciuto in un ambiente in cui la religione non ha mai avuto un’ importanza preminente, sebbene ovviamente fosse rispettata, ma quando ero alle elementari nella mia Casa si aveva l’ abitudine di andare in chiesa, cosa per nulla gravosa dato che portava via un’ ora di tempo al massimo, e, più tardi, di recitare una preghiera così che il motivo alla base della ricorrenza fosse correttamente considerato, per poi procedere con gli auguri, lo scambio dei doni e i festeggiamenti. Non vi era nulla di rigidamente formale o bigotto, solo un minimo di coerenza: se si celebra un compleanno è infatti logico porgere gli auguri al festeggiato. Oggi invece non è più così. In mezzo alla febbre dei preparativi quasi più nessuno rivolge un pensiero al significato del Natale: ci si scambia qualche vago augurio e i doni, poi ci si siede a tavola per mangiare in abbondanza e allegria parlando di tutto e di più. Talvolta, anche di recente, ho domandato a persone di mia conoscenza con cui mi permetto di avere un minimo di dialogo il senso che danno al Natale, e la risposta più comune che ho ricevuto è stata conferma di una certa confusione e superficialità: «C’ è sempre stato. Natale è Natale…».

Tutto questo mi porta ad un tema di cui spesso mi capita di parlare, quello delle consuetudini, della tendenza ad agire ripetitivamente senza saperne il motivo e l’ utilità, ma solo perché «è sempre stato così». L’ abitudinarietà fa parte del funzionamento della nostra mente, indubbiamente, ed è anche utile perché ci aiuta a vivere con praticità e regolarità. Anche nella vita di tutti i giorni tendiamo a muoverci con l’ ausilio di orari e ritualità, semplificandoci l’ esistenza, tuttavia stiamo assistendo alla deriva dell’ automatismo, ossia il fare le cose in un certo modo senza saperne affatto il motivo, e questo mi fa ricordare le parole di T. S. Eliot, il celebre poeta e saggista statunitense premiato nel 1948 con il Nobel per la letteratura, nel poema «La roccia»: «Dov’ è la Vita che abbiamo perduto vivendo?». Io dico sempre che una persona intelligente deve sapere tutto quello che fa e perché, mentre un credente di qualsivoglia religione deve riflettere sulla propria fede e accettarne i valori fondamentali solo dopo averli capiti dal suo punto di vista e comportarsi di conseguenza nella vita di tutti i giorni. Questo dovrebbe valere anche nei festeggiamenti di oggi, altrimenti sarebbe più logico non festeggiare alcunché! Un’ altra cosa che mi capita di ripetere molte volte è che si deve prestare molta attenzione sia alla sostanza che alla forma, perché alla lunga si influenzano reciprocamente: guardandomi attorno, però, vedo molti preparativi formali ma con ben poca o addirittura nessuna consapevolezza riguardante la sostanza.

La celebre partita di pallone a Ypres;


Il 7 dicembre 2018 pubblicai sul mio sito informatico un articolo, «Quando il Natale veniva più decorosamente festeggiato in trincea», in cui affermai che un tempo il Natale era vivamente percepito dai cristiani come un giorno speciale, unico nel suo genere, nel quale si sentivano più buoni trasmettendo all’ ambiente una speciale carica di positività ed ottimismo che, non soggetta a limitazioni, si propagava in ogni direzione nell’ ambiente come un profumo o un’ onda luminosa o sonora, tornando peraltro indietro apportando risultati amplificati in accordo alla purezza e all’ intensità con cui era stata generata. Non di rado allietava con effetti riequilibranti e risananti persino i pochi non credenti, che oggi, invece, sono nettamente aumentati. Era un giorno così particolare che durante gli anni della tremenda Grande Guerra portò ad un particolare miracolo oggi poco ricordato: in occasione del Natale 1914 vi fu una tregua durante la quale le trincee videro il cessate il fuoco, e i soldati di entrambi gli schieramenti, tedeschi e britannici, dopo aver sepolto i cadaveri dei commilitoni uccisi nei combattimenti dei giorni precedenti, lasciarono le rispettive fosse per festeggiare la ricorrenza insieme, fraternizzando e scambiandosi doni e cibo. I versi di una canzone popolare di Mike Harding, «Christmas 1914», si rifanno proprio a questo particolare evento, omesso dai libri di storia: «I fucili rimasero in silenzio […] senza disturbare la notte. Parlammo, cantammo, ridemmo […] e a Natale giocammo a calcio insieme, nel fango della terra di nessuno.». La partita a pallone ebbe luogo nei pressi della cittadina belga di Ypres, entro la «terra di nessuno», lo spazio che divideva le trincee britanniche da quelle germaniche: fu il momento fondamentale di quella che sarebbe passata alla storia come «Tregua di Natale». Dopo aver ordinato alle truppe di non interrompere per nessun motivo i combattimenti, le quali evidentemente non obbedirono, i comandi britannico e tedesco fecero arrivare nelle prime linee alcuni piccoli pacchi dono natalizi contenenti dolci, liquori, tabacco, alberelli natalizi e candele. La sera della vigilia, a Ypres i tedeschi addobbarono le postazioni scambiandosi gli auguri e cantando vari motivetti natalizi. Qualcuno intonò la canzone «Stille nacht», la versione germanica della celebre «Silent night» britannica. Da quel momento, e per buona parte della serata, i soldati dei due eserciti non smisero di cantare, ognuno nella propria lingua e al riparo della propria postazione. E il giorno dopo deposero le armi per festeggiare insieme: un grande avvenimento nel bel mezzo di un inferno dall’ inarrestabile violenza!


Oggi, a centonove anni di distanza da quel particolare giorno, viene spontaneo interrogarsi sul legame tra chi si definisce ancora credente e il Natale e, più ingenerale, con la fede che segue. Dalla mia posizione, io che sono irreligioso penso con ferma convinzione che ricorrenze come quella di oggi andrebbero vissute con più consapevolezza del relativo significato da chi continua ad essere cristiano. Magari ci si potrebbe affannare un po’ meno nei preparativi e nelle spese, perché l’ esperienza ci insegna che anche nella semplicità si può giungere al bello e al decoroso, l’ importante è che chi decide di festeggiare ricordi anche solo per un momento il Figlio del suo Dio, imparando la nobile lezione di quei valorosi giovani che lottarono e morirono orribilmente lungo le linee trincerate della Grande Guerra nel cuore della nostra Europa, oggi come allora soggetta a profonde divisioni politiche e nazionaliste. Gente coraggiosa e degna di rispetto che oggi purtroppo non c’ è più, dinnanzi alla quale solo pochi di noi reggerebbero al confronto, persone di grande nobiltà che combattevano un conflitto che non capivano e che dividevano senza problemi tra di loro e addirittura con il nemico quel poco che avevano, dando alla ricorrenza di oggi un significato particolarmente profondo e commovente in un contesto tutt’ altro che scontato, dimostrando una saggezza e una compassione infinitamente superiori alle nostre. Gente dinnanzi alla quale io stesso chino il capo con riguardo. E’ più che evidente che il Natale venne ahimè più degnamente festeggiato nel doloroso inferno delle trincee piuttosto che nella nostra lodata «civiltà» dei centri urbani, veri e propri deserti interiori sepolti dalla pesante coltre della sabbia della superficialità e del conformismo, in cui forma e sostanza vengono sempre più tristemente lasciate a sé stesse…


Con i miei più cordiali auguri di buon Natale e felice anno nuovo.


Giacomo Ramella Pralungo

lunedì 13 novembre 2023

La forza e la responsabilità dell’ atto di comunicare

Giacomo Ramella Pralungo;


Giacomo Ramella Pralungo, autore di romanzi di narrativa fantascientifica e articoli culturali, storici e scientifici, considera la comunicazione una disciplina di grande importanza, da non sottovalutare, in grado di favorire la conoscenza e la consapevolezza ma anche l’ indebolimento dell’ autonomia e della capacità di pensare autonomamente, se usata scorrettamente.


Come romanziere e articolista, lei da anni è impegnato nel settore della comunicazione. Che cosa vuol dire per lei comunicare?


«Comunicare significa trasmettere un’ idea, un principio, qualcosa di preciso e concreto. Equivale a far capire qualcosa nel modo più esatto possibile. Non a caso, le parole hanno un significato preciso, e spesso addirittura più di uno. Ecco quindi che una parola detta in un certo modo piuttosto che in un altro può attribuire a seconda dei casi significati diversi a ciò che si cerca di dire. Comunicare è quindi un’ azione molto vasta e particolare, che richiede una grande cura.».


La comunicazione, quindi, è una disciplina dalla grande forza.


«Chi comunica, come gli scrittori e i giornalisti, esercita una grande influenza sulla società. Inoltre, mentre la vita umana è breve, gli scritti restano e si conservano per secoli. Purtroppo, alcuni testi sono stati all’ origine di grandi sofferenze, come quelli che hanno diffuso le concezioni estreme del Nazionalsocialismo e del Comunismo. Chi comunica ha il potere di causare più o meno direttamente il bene o il male di milioni di vite, quindi è bene che coltivi un atteggiamento onesto e imparziale, del tutto veritiero. I giornalisti in generale si interessano soltanto all’ attualità scottante, soprattutto quella orribile: in fondo a noi stessi consideriamo il delitto un atto imperdonabile e scioccante che non dovrebbe avvenire, ed è per questo che quando si verifica riempie le prime pagine dei giornali. Lo stesso accade per la corruzione e altri misfatti. Invece, crescere i propri figli, accudire i vecchi e gli ammalati ci sembrano comportamenti normali che non meritano di essere citati tra le notizie. Il difetto principale di questo atteggiamento è che un po’ alla volta ci porta a considerare gli omicidi, le violenze e altre atrocità come cose comuni. Rischiamo di pensare che la natura umana sia crudele e che non ci sia alcun mezzo per impedirle di esprimersi. Se un giorno ne saremo effettivamente convinti, non avremo più alcuna speranza per il futuro dell’ umanità.».


Lei è vicino alla filosofia buddhista, e a volte ha citato il valore buddhista del cosiddetto retto linguaggio.


«Sì, è vero. Secondo la tradizione, nel suo primo discorso dottrinario tenuto al Parco delle gazzelle di Sārnāth, vicino a Varanasi, la città santa degli induisti, il Buddha Śākyamuni espose il Nobile Ottuplice Sentiero, un modello di comportamento improntato sulla rettitudine di pensieri, parole e azioni. La retta parola implica l’ assunzione della nostra responsabilità di ciò che diciamo, ponendo attenzione nella scelta delle parole e valutandole in modo che non producano effetti nocivi sugli altri e di conseguenza su noi stessi: occorre quindi evitare la menzogna, la maldicenza, l’ offesa e il pettegolezzo vano, concentrandosi quindi sulla chiarezza e la sincerità, così da evitare i fraintendimenti e le opinioni errate. Anche il fatto di parlare di cose che non conosciamo o che non abbiamo doverosamente compreso andrebbe evitato: è ben più costruttivo concentrarsi su ciò di cui invece abbiamo esperienza diretta!».


Quindi, per lei comunicare è solo il passo finale, e non è possibile se non si ha un argomento, qualcosa da esprimere.


«Certamente. Le parole e gli altri mezzi di comunicazione sono solo un veicolo del messaggio, e senza di esso perdono la loro utilità. Oggi viviamo nell’ era delle informazioni, ma purtroppo molti di noi parlano molto ma senza dire nulla. Anche nella vita quotidiana, ormai, siamo abituati a parlare così, tanto per riempire il tempo e nulla di più. Al contrario, io credo che ci si dovrebbe soffermare maggiormente a riflettere su ciò che vorremmo trasmettere a chi ci circonda. Anche una comune chiacchierata tra amici, dinnanzi a una buona tazza di tè, può divenire bella e produttiva, se si basa su qualcosa di interessante. Sempre come disse il Buddha: ‘Prima di parlare domandati se ciò che dirai corrisponde a verità, se non provoca male a qualcuno, se è utile, ed infine se vale la pena turbare il silenzio per ciò che vuoi dire.’.».


Uno dei punti fermi del suo modo di esprimersi, di comunicare, è farlo in un italiano puro, libero da termini stranieri nella forma sia orale che scritta, quanto da quelli volgari.


«Purtroppo, questo è un altro dei maggiori difetti del mondo di oggi. Attualmente le parole inglesi si sono intrufolate nella nostra lingua come un virus, e quasi non c’ è più nessuno che parli un italiano tradizionale. Di recente mi è capitato di lamentarmi di questa tendenza, e mi sono sentito rispondere: ‘Ma ormai è così, è la moda generale. Che vuoi farci? Bisognava evitarla vent’ anni fa.’. Io credo che questo mondo dipenda da noi, lo Spirito Santo è impegnato altrove (risata), quindi occorre cominciare da noi per migliorare ciò che ci accade intorno. Evito volontariamente le parole inglesi e di altre lingue e tutti mi capiscono benissimo, inoltre non uso mai quelle volgari poiché ho compreso l’ educazione ricevuta dai miei genitori e trovo spontaneo metterla in pratica. Qualcuno alle volte mi ha detto che so di vecchio, in realtà il decoro, anche linguistico, è un valore classico che ancora non è passato di moda. Si può parlare ed essere gradevoli senza alcun bisogno di ricorrere a parolacce e concetti sconvenienti. Questo è esattamente ciò che faccio nella preparazione dei miei testi, e sento che è la via migliore.».


Che cosa pensa della crescente cultura della cancellazione, o del boicottaggio?


«Credo che sia una scempiaggine di quest’ epoca offuscata, in cui i valori stanno paurosamente venendo meno senza che vengano sostituiti da qualcosa di meglio, a differenza di come avveniva in passato. Io non ho un orientamento politico in particolare, ma credo che sia una crociata portata avanti da una Sinistra che non sa più come proseguire la contestazione che da sempre è uno dei suoi valori portanti. Ora che il tradizionale terreno di scontro in cui il Comunismo è maturato è venuto meno, non si può più parlare di lotta di classe, di abbattimento di un sistema oppressivo e ingiusto e di dittatura del proletariato. La giustizia sociale a danno della reazione quindi passa attraverso la lotta ai valori tradizionali. Anziché parlare di pari opportunità per tutti, si cerca di calare la cortina di censura su ciò che animava il mondo di una volta, colpevole di ciò che a noi oggi pare arretrato, e imporre modelli diametralmente opposti. I mezzi di comunicazione, oggigiorno, sono purtroppo coinvolti sempre di più in questo genere di contrasto.».


Oggi, soprattutto grazie alla rete, è diventato molto facile non solo recepire informazioni, ma anche trasmetterle. E’ positivo, però sono aumentate anche le bufale.


«Infatti, oggi comunicare è divenuto molto facile grazie ai mezzi di comunicazione, Internet specialmente: si legge e si scrive nel giro di un istante. Basta anche solo un cellulare, e il gioco è fatto. Tuttavia non si riflette più sull’ autenticità o meno di ciò che viene trasmesso, e di conseguenza le false informazioni tendono a suscitare maggiore interesse e a vantare persino più credibilità di quelle vere. E la comunicazione diventa qualcosa di nocivo. Io lo trovo molto allarmante, e personalmente credo che abbia ragione il professor Alessandro Barbero che, come storico e divulgatore, pone molta attenzione alle fonti: ‘Quando sentiamo dire una certa cosa, prima di tutto occorre chiedere a chi ci parla dove l’ ha saputo.’.».


Quindi, anche il pubblico ha la sua parte di responsabilità in tema di comunicazione?


«E’ vero: chi riceve un messaggio deve soppesarlo con cura, e ha la stessa responsabilità di chi lo emette. La comunicazione è un fenomeno interdipendente, che collega tutti tra loro. Il retto linguaggio di cui parlava il Buddha Śākyamuni ci tocca tutti, chi in un modo e chi in un altro.».


Grazie per aver condiviso il suo parere.


«Molte grazie a voi, per questa bella conversazione. E’ sempre un vero piacere.».

venerdì 27 ottobre 2023

Israele fermi l’ apartheid contro i palestinesi


Giacomo Ramella Pralungo, autore di narrativa fantascientifica e articoli storici, culturali e scientifici, ha presentato una lettera in cui espone il proprio pensiero sui drammatici eventi che hanno luogo in Terra Santa, esprimendo seri dubbi sulla politica israeliana, che non esita a definire apartheid, e piena solidarietà al popolo palestinese.


Nei giorni scorsi il Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, è intervenuto durante una riunione del Consiglio di Sicurezza, il principale organo esecutivo delle Nazioni Unite, per commentare la situazione nella Striscia di Gaza. Parlando del feroce attacco del 7 ottobre compiuto dal gruppo radicale islamista Hamas, dicendo che per quanto le violenze non siano giustificabili, «è importante riconoscere che gli attacchi di Hamas non siano avvenuti nel vuoto: il popolo palestinese è stato sottoposto a cinquantasei anni di soffocante occupazione. Hanno visto la loro terra costantemente divorata dagli insediamenti e piagata dalla violenza, la loro economia soffocata, la loro gente sfollata e le loro case demolite. Le loro speranze per una soluzione politica alla loro situazione sono svanite». Il discorso è stato immediatamente molto criticato da vari esponenti istituzionali di Israele perché ritenuto non sufficientemente empatico nei confronti delle violenze subite dagli israeliani e al contempo troppo poco duro con Hamas, che Israele e altri Paesi considerano da tempo un’ organizzazione terroristica. Dall’ istituzione dello Stato di Israele nel 1948, i governi che si sono avvicendati hanno creato e preservato un sistema di leggi, politiche e pratiche progettate per opprimere e dominare le e i palestinesi. Questo sistema funziona in modi diversi nelle diverse aree in cui Israele esercita il controllo sui diritti dei palestinesi, ma l’ intento è sempre lo stesso: privilegiare gli ebrei israeliani a spese dei palestinesi. Come si legge in un messaggio pubblicato in rete nel marzo 2019 dal Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu: «Israele non è lo Stato di tutti i suoi cittadini, ma piuttosto lo Stato-nazione del popolo ebraico e solo il loro.».

L’ esodo palestinese del 1948, conosciuto soprattutto nel mondo arabo, e fra i palestinesi in particolare, come nakba, che significa «catastrofe» in arabo, è l’ allontanamento forzato della popolazione araba palestinese durante la guerra civile del 1947-48, al termine del mandato britannico, e durante la guerra arabo-israeliana del 1948, dopo la fondazione dello Stato di Israele. Durante tale conflitto, più di settecentomila arabi palestinesi abbandonarono città e villaggi o ne furono espulsi e, successivamente, si videro rifiutare ogni loro diritto al ritorno nelle proprie terre, sia durante che al termine del conflitto. La proporzione fra i palestinesi che erano fuggiti o che furono cacciati, le cause e le responsabilità dell’ esodo, il suo carattere accidentale o intenzionale, come pure il diniego, dopo la cessazione dei combattimenti, del diritto al ritorno degli abitanti arabo-palestinesi, musulmani e cristiani, sono un soggetto fortemente dibattuto sia da parte degli studiosi della questione israelo-palestinese, che degli storici specialisti degli eventi di tale periodo. Questo esodo è anche all’ origine del successivo problema dei rifugiati palestinesi, che costituisce uno dei contenziosi più difficili da risolvere del più ampio conflitto arabo-israeliano e israelo-palestinese. A settantacinque anni dalla loro espulsione, la sofferenza e lo sfollamento dei profughi palestinesi sono una realtà quotidiana. I palestinesi che sono fuggiti o sono stati espulsi dalle loro case in quello che oggi è Israele, insieme ai loro discendenti, hanno il diritto al ritorno così come stabilito dal diritto internazionale. Tuttavia, non hanno praticamente alcuna prospettiva di poter tornare alle loro case, molte delle quali distrutte da Israele, o ai villaggi e alle città da cui provengono. Israele non ha mai riconosciuto questo loro diritto. Negare una casa ai palestinesi è al centro del regime di apartheid imposto da Israele ai palestinesi. L’ espropriazione delle proprietà dei palestinesi non si è fermata e la nakba è diventata l’ emblema dell’ oppressione che i palestinesi devono affrontare ogni giorno, da decenni. Oggi, oltre cinque milioni e seicentomila palestinesi rimangono rifugiati e non hanno diritto al ritorno. Almeno altri centocinquantamila corrono il rischio reale di perdere la casa a causa della brutale pratica israeliana di demolizioni di case o sgomberi forzati. La nuova ricerca di Amnesty International dimostra che Israele impone un sistema di oppressione e dominazione sulle e sui palestinesi in tutte le aree sotto il suo controllo: in Israele e nei Territori occupati, e contro i rifugiati palestinesi, in modo che a beneficiarne siano le e gli ebrei israeliani. Ciò equivale all’ apartheid ed è proibita dal diritto internazionale. Leggi, politiche e pratiche volte a mantenere un sistema crudele di controllo sulle e sui palestinesi, li hanno frammentati geograficamente e politicamente, spesso impoveriti in un costante stato di paura e insicurezza.

L’ apartheid non è accettabile in nessuna parte del mondo. Quindi perché il mondo accetta quello in corso contro i palestinesi? I diritti umani sono stati a lungo tenuti da parte dalla comunità internazionale quando ha affrontato la lotta e la sofferenza pluridecennale della popolazione palestinese. Di fronte alla brutalità della repressione israeliana, la popolazione palestinese chiede da oltre vent’ anni che venga compreso che la politica israeliana è una politica di apartheid. Nel corso del tempo, a livello internazionale, il trattamento riservato da Israele ai palestinesi ha iniziato a essere considerato in maniera sempre più ampia come apartheid. Tuttavia, i governi con la responsabilità e il potere di fare qualcosa si sono rifiutati di intraprendere qualsiasi azione significativa per chiedere conto a Israele delle sue responsabilità. Al contrario, si sono nascosti dietro un processo di pace moribondo a scapito dei diritti umani. Sfortunatamente, la situazione odierna non vede alcun progresso verso una soluzione, ma anzi il peggioramento dei diritti umani per i palestinesi. Amnesty International chiede a Israele di porre fine al crimine internazionale dell’apartheid, smantellando le misure di frammentazione, segregazione, discriminazione e privazione, attualmente in atto contro la popolazione palestinese.

Le autorità israeliane hanno fatto tutto ciò attraverso quattro principali strategie: frammentazione in domini di controllo, espellendo centinaia di migliaia di palestinesi e distruggendo centinaia di villaggi palestinesi, in quella che è stata una pulizia etnica; espropri di terra e proprietà, in cui i palestinesi sono stati confinati in enclavi separate e densamente popolate; segregazione e controllo, che vede Israele negare ai palestinesi i loro diritti alla nazionalità e allo status uguali, mentre i palestinesi nei Territori palestinesi occupati affrontano severe restrizioni alla libertà di movimento da parte di Israele che limita anche i diritti delle e dei palestinesi all’ unificazione familiare in modo profondamente discriminatorio; privazione di diritti economici e sociali, con i palestinesi che vivono forti limitazioni discriminatorie nell’ accesso e nell’ uso di terreni agricoli, acqua, gas e petrolio tra le altre risorse naturali, così come restrizioni nell’erogazione di servizi sanitari, di istruzione e di servizi di base.

Ebrei antisionisti a Trafalgar Square, luglio 2006;


Il popolo palestinese è sistematicamente sottoposto a demolizioni di case e sgomberi forzati, e vive nella costante paura di perdere le loro case. Per più di settant’ anni, Israele ha spostato con la forza intere comunità palestinesi. Centinaia di migliaia di case palestinesi sono state demolite, causando terribili traumi e sofferenze. Più di sei milioni di palestinesi rimangono rifugiati, la maggior parte di questi vive in campi profughi anche al di fuori di Israele e dei Territori palestinesi occupati. Ci sono più di centomila palestinesi negli Territori palestinesi occupati e altri sessantottomila all’ interno di Israele a rischio imminente di perdere le loro case, molti per la seconda o terza volta.

Il popolo palestinese è intrappolato in un circolo vizioso. Israele richiede loro di ottenere un permesso per costruire o anche solo di erigere una struttura come una tenda, ma a differenza delle e dei richiedenti ebrei israeliani raramente rilascia loro un permesso. Molti palestinesi sono costretti a costruire senza permesso. Israele poi demolisce le case palestinesi sulla base del fatto che sono state costruite illegalmente. Israele usa queste politiche discriminatorie di pianificazione e suddivisione in zone per creare condizioni di vita insopportabili per costringere le e i palestinesi a lasciare le loro case per permettere l’ espansione dell’insediamento ebraico. Mohammed Al-Rajabi, un residente della zona di Al-Bustan a Silwan, la cui casa è stata demolita dalle autorità israeliane il 23 giugno 2020 sulla base del fatto che era stata costruita illegalmente, ha descritto ad Amnesty International l’impatto devastante sulla sua famiglia: «E’ estremamente difficile da affrontare. Potrebbe essere difficile da esprimere a parole… e ho percepito che è stato più difficile per i miei figli che per noi. Erano davvero entusiasti che avessimo questa nuova casa. Conserverò le foto di quel giorno e le mostrerò ai miei figli quando saranno grandi, così non dimenticheranno quello che ci è successo. Dirò loro, ‘vedete che tipo di ricordi ho da trasmettervi?’. Il mio piano era che avessero una casa calda e familiare vicino ai loro cari e ai loro familiari. Ora sto trasmettendo i ricordi della distruzione della loro prima casa d’ infanzia.».

Israele ha commesso metodicamente gravi violazioni dei diritti umani contro i palestinesi per decenni. Violazioni come il trasferimento forzato, la detenzione amministrativa, la tortura, le uccisioni illegali e le lesioni gravi, e la negazione dei diritti e delle libertà fondamentali sono state ben documentate da Amnesty International e da altri. E’ chiaro che il sistema dell’ apartheid israeliano viene mantenuto commettendo questi abusi, che sono stati perpetrati nella quasi totale impunità. Questi abusi fanno parte di un attacco diffuso e sistematico contro la popolazione palestinese, portato avanti nel contesto del regime istituzionalizzato di oppressione e dominio sistematico di Israele sui palestinesi, e quindi costituiscono crimini contro l’ umanità di apartheid. Le autorità israeliane hanno goduto dell’ impunità per troppo tempo. L’ incapacità internazionale di chiedere conto a Israele significa che le e i palestinesi continuano a soffrire ogni giorno. E’ ora di alzare la voce, di stare con i palestinesi e dire a Israele che l’ apartheid non può più essere tollerato. Per decenni, i palestinesi hanno chiesto la fine dell’ oppressione in cui vivono, e personalmente ritengo che si debba ricordare a Israele che in passato lo stesso popolo ebraico ha subito pregiudizi e persecuzioni violenti e ingiusti, soprattutto istigati dai cristiani e dalle autorità ecclesiastiche che lo accusava di deicidio e lo relegava a tutte quelle professioni immorali, come l’ usura, e, più in generale a quelle che non gli avrebbe conferito un vantaggio su coloro che seguivano la pura dottrina. Quanto subito durante il Terzo Reich dovrebbe fungere da lezione di tolleranza e solidarietà, ma purtroppo i palestinesi pagano troppo spesso un prezzo terribile per lottare per i loro diritti, e da tempo chiedono che il mondo li aiuti. Che questo sia l’ inizio della fine del sistema di apartheid di Israele contro la popolazione palestinese.


Giacomo Ramella Pralungo

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