lunedì 29 giugno 2020

Il dialetto, un anacronismo



Quella tra lingua e dialetto è una singolar tenzone antica che da sempre divide popolo e studiosi. Se non vi è differenza tra loro a livello idiomatico, su quello formale è ben diverso: la prima ha un carattere di ufficialità che viene negato al secondo, per via di cause soprattutto storiche e sociali. Tale discrepanza presenta comunque un forte riflesso linguistico. Giacomo Ramella Pralungo, romanziere di fantascienza e articolista storico, è un convinto difensore della lingua italiana, e riconosce al dialetto un’ importanza storica e culturale che tuttavia oggi non ha più su quello pratico: «La storia fa costantemente il suo corso, come dimostrato dal greco antico e dal latino, oggi tramandati come utile elemento di studio al fine di preservare la comprensione di due celebri e potenti popoli antichi, che molto hanno dato al mondo e che hanno modellato l’ Europa. Oggi, i dialetti hanno semplicemente imboccato questa particolare strada, mentre l’ italiano è sempre più la lingua del presente e del futuro.».

Mentre sorseggia un buon tè verde in veranda, sfogliando di tanto in tanto le pagine di un album fotografico ritraente varie città e regioni d’ Italia al calar della notte in una successione di fotografie incantevoli, Giacomo espone i suoi dubbi in tema di dialetto: «La mia opinione? Penso che il dialetto si tratti di un anacronismo, una forma di linguaggio che ha fatto il suo tempo, come è nella natura di tutte le cose.». Aggiunge che si tratta di una cosa bella da sentire e da parlare, che abbia una precisa importanza storica e culturale, che però ha ben poco a che vedere con il mondo di oggi: «L’ Italia è un Paese fortemente variegato al suo interno, con tradizioni molto diverse e persino parlate locali particolari. Tutto ciò in condizioni normali rappresenta una notevole ricchezza, ma siamo anche una nazione complicata, fortemente campanilista e differenziata al suo interno. Ed ecco che quanto potrebbe giovarci finisce piuttosto con il recarci danno. Siamo molto diversi dalla Francia, lo Stato unitario per antonomasia, una nazione omogenea in cui il popolo si sente ben più unito sotto quasi tutti gli aspetti, anche linguistici e architettonici, e che si presenta unito e fiero di fronte al resto del mondo. Per secoli gli italiani di una regione hanno percepito come nemici più gli abitanti di una regione o una provincia vicina piuttosto che i francesi o gli austriaci, le principali potenze militari e imperialistiche, e questo ha impedito la nostra vera unificazione. Sono fermamente convinto che la sopravvivenza dei dialetti nell’ Italia di oggi ricada ampiamente in questo discorso di discordie e settarismo.».
Lo scrittore afferma che da molti anni ama leggere le pagine relative all’ unità d’ Italia, e sente che la parlata dialettale aveva propriamente senso allora, prima della riunificazione: «Con la caduta dell’ Impero romano d’ Occidente, il latino si frammentò e si mischiò con gli idiomi locali e quelli barbarici, dando origine al variegato panorama delle lingue volgari. In questa stessa culla si svilupparono quelli che in seguito sarebbero divenuti i dialetti che conosciamo noi oggi, accompagnati in un certo modo dall’ italiano, per secoli in costante evoluzione pur avendo un ruolo marginale.». I dialetti, infatti, erano le lingue dei rispettivi popoli italiani, mentre il nascente italiano era quella dei dotti e dei letterati, così come il latino corrispondeva a quello dei giuristi e dei religiosi. Tutto cambiò nell’ Ottocento, con i vari movimenti culturali, politici e sociali che promossero la riunificazione nazionale sulla base di ideali romantici, nazionalisti e patriottici che portarono alla proclamazione del Regno d’ Italia, in una serie di guerre, accordi diplomatici e annessioni territoriali che ebbero fine nel 1918, al termine della Grande Guerra. La lingua italiana si ritrovò pertanto tra gli elementi più importanti della riunificazione sul piano sia culturale che formale e burocratico, sebbene fino alla metà del Novecento una larga parte della popolazione, soprattutto le classi meno abbienti, come i contadini e gli abitanti delle periferie, continuarono a parlare i dialetti locali non potendo permettersi il lusso di andare a scuola, ove era incoraggiata. All’ indomani del 1861, infatti, solo il due virgola cinque percento degli italiani conosceva l’ italiano, anche solo in forma orale, mentre nel 1951 il sessantacinque percento della popolazione usava ancora il dialetto in qualunque circostanza: «Siamo una nazione relativamente giovane sulla scena europea, anche più di alcune nazioni sudamericane, e all’ inizio della nostra storia eravamo particolarmente indietro in confronto ai Paesi confinanti, con un tasso di analfabetismo e condizioni di vita che in campagna erano rimaste a livelli praticamente medievali. Soffrivamo ancora di determinate malattie che in buona parte d’ Europa erano state già debellate da lungo tempo. Fortunatamente ci siamo molto evoluti da allora, ma se vi è stata l’ unità politica, è purtroppo mancata quella culturale e quindi linguistica, tanto che ancora oggi molta gente di mia conoscenza continua a ritenersi piemontese, lombarda, veneta o altro, difendendo la superiorità del proprio dialetto sull’ idioma nazionale: suonano tristemente veritiere le parole di Massimo d’ Azeglio, il celebre patriota che fu Primo ministro del Regno di Piemonte e Sardegna tra il 1849 e il 1852, secondo cui purtroppo si è fatta l’ Italia, ma non gli italiani!».
Tutto ciò, prosegue, gli pare molto triste per una nazione che dal 1975 siede con onore nel Gruppo dei Sette: sente con convinzione che nell’ era dell’ unità nazionale vi dovrebbe essere la consapevolezza di essere tutti indistintamente italiani da Bressanone a Lampedusa, da Oulx a Lecce, quindi ancorarsi a cose del passato come i dialetti gli pare proprio come una negazione di quest’ unità, un mancato riconoscimento dell’ impegno di tutti coloro che, in un modo o nell’ altro, parteciparono al Risorgimento. Moltissimi patrioti di ogni schieramento persero la vita in battaglia, contribuendo a consegnarci un’ unica nazione con un unico popolo, e parlare ancora oggi i dialetti nella vita di tutti giorni è forse una delle più evidenti mancanze di considerazione nei loro riguardi.
Il Tricolore, simbolo dell’ unità nazionale, svetta sul Quirinale;

I dialetti locali rappresentano una delle più forti barriere all’ unità nazionale, afferma Giacomo, che tuttavia ripete di ammetterne il valore storico: «Per lungo tempo, i dialetti sono stati il linguaggio fondamentale nello scenario preunitario. Studiarli come il greco antico e il latino significa comprendere e ricordare come eravamo una volta, ma occorre tenere presente che oggi hanno perduto la loro ragion d’ essere: viviamo in un tempo in cui ogni cosa è profondamente diversa dalla metà dell’ Ottocento e dai secoli precedenti, pertanto bisogna ragionare in termini più moderni, ampi e nazionali. Ho la ferma sensazione che continuare a parlare in dialetto oggigiorno sia antitaliano, ben contrario all’ impegno e al sacrificio di tutti coloro che parteciparono al Risorgimento, spesso morendo sul campo o dedicando una lunga vita in altri ambienti.».
L’ autore si dice convinto che il problema di base si trovi nella mentalità degli italiani, tuttora animata da pregiudizi e classificazioni molto radicati, tipici dell’ era preunitaria: «Ancora oggi siamo largamente divisi secondo criteri regionali, e trovo che la cosa non ci faccia affatto bene. Come possiamo presentarci di fronte al mondo come una nazione se continuiamo a nutrire antipatie e preconcetti reciproci tra siciliani e campani, laziali e calabresi, settentrionali e meridionali? E’ molto difficile. Siamo proprio un Paese contradditorio, e i dialetti sono stati ridotti ad una pretesa di superiorità nei confronti di chi ci circonda senza piacerci…».
A questo proposito, aggiunge che non gli garba affatto sentirsi chiamare «piemontese»: «Mio padre è di Biella, mentre mia madre era di Pavia. Lasciando per un momento da parte il discorso dell’ italianità, trovo piuttosto grave sentirmi descrivere come unicamente piemontese, perché significa negare che ho avuto una madre, con la sua provenienza territoriale. La mia duplice discendenza mi permette di sentirmi più italiano della maggior parte dei miei vicini di casa e dei miei stessi parenti. Ecco perché la lingua italiana mi è tanto cara e mi è ormai chiaro quanto il dialetto sia qualcosa di più limitante e di valore strettamente storico, da trattare con riguardo accademico ma senza aggrapparsi ad esso come una cosa necessaria a livello pratico e quotidiano. I veri piemontesi, oggi, riposano tutti nelle proprie tombe da oltre centocinquant’ anni (risata)…».
L’ Italia vista dai satelliti: una e senza confini;

Giacomo sente molto il valore dell’ italianità, pur precisando di essere in parte di discendenza straniera attraverso la madre, la cui famiglia ha un’ antica provenienza ispanica ed argentina, altra cosa di cui non nasconde un certo vanto: «Il fatto di essere un po’ italiano e un po’ straniero mi aiuta a vedere le cose in maniera più ampia, senza cadere nella trappola del nazionalismo, o del campanilismo a cui accennavo prima. In confronto al novanta percento degli italiani sento comunque di avere le idee più chiare in fatto di nazionalità e quindi lingua. Sono beatamente ispirato alle parole di D’ Azeglio: fatta l’ Italia, si facciano gli italiani! Ricordiamo pure i dialetti, come si fa con gli idiomi antichi, ma non consideriamoli più la nostra lingua madre. Riscopriamo piuttosto il valore e la sostanza della lingua italiana, una delle più raffinate, ricche e apprezzate al mondo, per quanto difficile da padroneggiare, e che forse rappresenta l’ elemento che più ci unisce come popolo!». Quando casualmente gli diciamo che abbiamo notato che parlando non utilizza mai parole inglesi, annuisce fermamente con un sorriso, rispondendo che si tratta di una sua particolare battaglia contro il miscuglio di lingue, che porta avanti anche nei suoi testi, siano essi libri di narrativa o articoli: «Oggi, conoscere l’ inglese è fondamentale perché ci consente di stabilire solidi contatti con il resto del mondo, e penso che tra qualche tempo saremo tenuti ad imparare il cinese per la stessa ragione, visto il crescente peso che la Cina ha accumulato e che tuttora sta guadagnando sulla scena mondiale. Conoscere altre lingue rappresenta un vero patrimonio, ma il mischiarle tra loro mi pare proprio una sciocchezza del tutto inutile e che aborrisco. Io conosco l’ inglese e ne confermo l’ utilità, ma amo l’ italiano così com’ è, e proprio non vedo che cosa ricaverei di buono diluendola con un’ altra lingua, sia essa l’ inglese o una qualsiasi altra…».

Nessun commento:

Posta un commento

Giacomo Ramella Pralungo ai funerali di Vittorio Emanuele, ultimo erede al trono d’ Italia

Il feretro di Vittorio Emanuele condotto in Duomo; In virtù di problemi tecnici dei giorni scorsi, e scusandoci per il ritardo, pubblichia...