martedì 2 giugno 2020

«Ogni 2 giugno io ricordo Sua Maestà»



Seduto in salotto davanti al televisore, Giacomo Ramella Pralungo, romanziere e articolista storico, osserva i filmati storici alternati ad altri più recenti sulle celebrazioni della Festa della Repubblica Italiana, che quest’ anno non viene festeggiata in ottemperanza alle disposizioni del Quirinale a causa dell’ emergenza relativa alla pandemia di COVID-19. Di tanto in tanto sfoglia le pagine di un saggio storico, «I Savoia - Novecento anni di una dinastia», del giornalista e politico Gianni Oliva, che definisce un gradevole affresco di un casato le cui vicende si intersecano saldamente con la storia sia europea che italiana: «Inizialmente conti di Savoia, di Moriana, Belley, Sion e Aosta, nonché signori delle vie di Francia che passavano per il Moncenisio e il San Bernardo, in un secondo momento divennero duchi di Savoia, dominando tra il Rodano e il Po. Nel Settecento furono re di Sardegna, e si inserirono negli equilibri della penisola italiana, e dal 1861 al 1946 detennero la corona del Belpaese. Questa dinastia alpina, di provenienza francese, quando ancora era piccola e non ricca, quindi ben poco potente di fronte a francesi, spagnoli e austriaci, grazie ad un’ abile politica estera e matrimoniale seppe creare un conveniente Stato cuscinetto a ridosso dei valichi montani, dividendo in tal modo le grandi potenze del momento di cui schivò le ambizioni e restando al potere per ben novecento. Nel 1946 era la più longeva di tutte le famiglie reali europee, eppure da quando esiste la Repubblica ne abbiamo un’ idea alquanto inesatta e ostile.».
Il Duca Amedeo di Savoia Aosta, capo di Casa Savoia;

Alla domanda su come viva la giornata di oggi, il 2 giugno, Giacomo risponde di sentirsi diviso tra sentimenti diversi: «Come italiano mi piace guardare in televisione la sfilata militare, che trovo molto bella, tra le pochissime cose che attualmente avvicinano e uniscono la gente. Come monarchico, invece, non è mai un giorno felice per me. Per ironia della storia, le unità militari coinvolte nei festeggiamenti della Repubblica furono costituite proprio dai Savoia, ma le generazioni attuali pensano che tutto sia iniziato con il referendum istituzionale del 1946. Io, invece, ogni 2 giugno ricordo Sua Maestà.».
Lo scrittore racconta di essersi avvicinato gradualmente all’ ideale monarchico a seguito dei pareri favorevoli che udiva fin da bambino dalla madre, nata nel 1943, in piena Seconda Guerra Mondiale e poco prima dell’ avvento della Repubblica. A diciotto anni si sentì certo di essere monarchico e da allora studiò la storia di Casa Savoia, il Risorgimento e gli eventi del Regno d’ Italia, seguendo le vicende dei reali deposti sia durante che dopo l’ esilio, disposto con la XIII Disposizione Transitoria del 1947 e terminato con la legge costituzionale del 23 ottobre 2002. Dal 1983, l’ ex famiglia reale è coinvolta in una disputa dinastica che contrappone il principe Vittorio Emanuele, figlio dell’ ultimo re, Umberto II, e il cugino Amedeo di Savoia-Aosta nella contesa del titolo di capo della dinastia: «Ho sempre appoggiato il Duca Amedeo quale legittimo pretendente al trono italiano. La questione dinastica ruota attorno al fatto che il Principe Vittorio Emanuele abbia perso lo status di principe ereditario, con il conseguente passaggio dei diritti dinastici al V Duca di Aosta, a causa del matrimonio con Marina Doria senza l’ esplicito consenso del padre Umberto nella sua veste di sovrano, il cosiddetto regio assenso, così come stabilito dalle regie patenti del 13 settembre 1782, introdotte da re Vittorio Amedeo III di Savoia.». Ogni famiglia reale ha le sue regole, e i Savoia continuano a rispettare le proprie pur non regnando più. Tuttavia, aggiunge che a questo motivo ufficiale si aggiungono i numerosi procedimenti giudiziari che hanno contrassegnato la vita del figlio dell’ ultimo re, più volte imputato per traffico internazionale di armi, omicidio e porto abusivo di arma da fuoco, affiliazione alla P2 e corruzione e sfruttamento della prostituzione, oltre che le polemiche suscitate dalle sue molteplici topiche: «Ho sempre sostenuto che l’ esilio che gli fu imposto analogamente a suo nonno e suo padre fosse un’ esagerazione e che si ritrovò a pagare per colpe non sue, tuttavia a causa delle sue figuracce madornali causate da dichiarazioni che hanno denotato una certa impreparazione sono fermamente convinto che il suo capo non sia adatto a portare la corona nazionale. Quello del Duca Amedeo, invece, le darebbe un prestigio infinitamente superiore.».
Re Umberto II, la Regina Maria Josè e i figli nel 1946;

Giacomo prosegue dicendo che a causa di una certa propaganda equivoca tutta repubblicana, Casa Savoia oggi non gode di un giudizio generalmente lusinghiero da parte del popolo italiano, che in parte è stato influenzato dagli antimonarchici in generale e dagli anti fascisti, dai comunisti e socialisti in particolare, e in parte addirittura ignora come funzionasse il sistema monarchico nell’ Ottocento e nel Novecento: «Ho sentito con le mie orecchie molti italiani accusare la monarchia di essere un sistema arbitrario e privo di libertà e democrazia, in cui il sovrano ha in mano ogni potere, e che solo la Repubblica incarna gli ideali di armonia e giustizia oggi tanto necessari. A me queste parole hanno sempre fatto venire in mente l’ Ancien Régime del Re Sole (risata)! L’ italiano medio ignora la propria storia, perché con la Rivoluzione francese prima e i moti del 1820-21 e del 1830-31, e la rivoluzione del 1848 poi l’ assolutismo e i governi della Restaurazione caddero in favore delle monarchie costituzionali e parlamentari, nelle quali il re detiene i tre poteri ma li delega a governo, Parlamento e magistratura. I Savoia fecero altrettanto al tempo di Carlo Alberto, che promulgò lo Statuto Albertino nel 1848: noi siamo stati una monarchia costituzionale la cui struttura è stata preservata con ben poche varianti dalla Repubblica. La gente non sa che nella beneamata Repubblica vi è ancora moltissimo dell’ odiata Monarchia (risata)!».
Re Umberto il primo giorno di regno, 9 maggio 1946;

In questo clima di confusione e disinformazione, racconta, Casa Savoia è stata genericamente sottoposta ad una condanna della memoria a causa della docilità di re Vittorio Emanuele III nei confronti di Benito Mussolini e delle sue iniziative, finendo per diventare il capro espiatorio di tutti i mali: «La famiglia reale fu espropriata dei suoi beni e costretta ad un esilio perpetuo che non cessò neanche con la morte in Egitto di Vittorio Emanuele e di suo figlio Umberto in Svizzera. La salma del primo venne trasferita da Alessandria d’ Egitto al Santuario di Vicoforte solo alla fine del 2017, insieme a quella della moglie, la regina Elena, mentre quella del secondo riposa ancora all’ Abbazia di Altacomba, nella Savoia francese, insieme a quella della propria sposa, la popolarissima regina Maria José.».
Come se non bastasse, continua l’ autore, l’ Italia ha dimostrato di essere il Paese dei due pesi e delle sue misure, dal momento che dal 1945 in avanti non ha mai preso alcun provvedimento contro i figli e i nipoti di Mussolini, consentendo loro di vivere in pace entro i confini nazionali, e senza confische patrimoniali: «Com’ era logico che fosse, nessuno ha mai pensato di rivalersi sulla vedova Rachele Guidi e gli orfani Edda, Vittorio, Romano e Anna Maria per ciò che il terribile Duce aveva fatto. E la famiglia Mussolini ha sempre vissuto decorosamente e in disparte, senza mai importunare nessuno o attirare l’ attenzione. Ai perfidi Savoia nulla fu invece risparmiato…».
Alla domanda su che cosa della Monarchia lo attragga in particolare, Giacomo riflette con attenzione per qualche istante, prima di rispondere che per quanto possa apparire antiquata, rigida e ridicolmente cerimoniosa, i Paesi europei più moderni e progrediti sotto il profilo civile e politico sono proprio quelli a profilo monarchico, soprattutto nell’ Europa settentrionale: «Penso che la Monarchia sia un fatto tribale, del popolo. Incarna lo spirito della nazione, quindi non appartiene agli ottimati o alle cerchie intellettuali, e si sforza tramite una certa immagine di dare il buon esempio. Riesce a garantire equilibrio al Paese perché il sovrano non viene eletto: un repubblicano potrebbe parlare di un principio antidemocratico, ma proprio per il fatto di non essere stato eletto dal Parlamento lo stesso monarca riesce ad essere effettivamente neutrale, come si conviene ai capi di Stato. E non dimentichiamo che il principe ereditario viene educato in modo molto fermo e attento fin da bambino. Lo trovo un sistema molto positivo, per quanto anche in una Monarchia vi siano alcuni difetti e problemi così come se ne trovano altrettanti in una Repubblica.».
Sorridendo affabilmente, aggiunge che un re è preparato fin da bambino a svolgere il suo compito e una volta succeduto al predecessore sa come comportarsi e rappresentare al meglio il suo Paese. Vincola le strutture fondamentali dello Stato, tra forze armate, diplomazia, magistratura e alta amministrazione alla Corona, proteggendo tali importanti uffici dalle pressioni e invadenze dei partiti e dai rispettivi interessi evitando che coinvolgano l’ istituzione simbolo dell’ unità nazionale. Peraltro, avendo un mandato a vita, un re ha una visione a lungo termine e non a breve come quella di un politico, che una volta eletto si concentra sulla breve durata del proprio mandato e cerca ovviamente di essere riconfermato. Sebbene sia vero che ci sono sovrani sia buoni che cattivi, va considerato che i monarchi di oggi hanno un potere veramente limitato, pertanto un regnante non all’ altezza avrebbe veramente poche possibilità di danneggiare la nazione mentre un cattivo Presidente della Repubblica può per statuto nuocere assai di più: «Vi è poi un altro fattore da non trascurare, ossia il fatto che la Monarchia di qualunque Paese riesce a creare l’ atmosfera di una grande famiglia, sia nei momenti di gioia che in quelli di dolore: un membro della casa reale è sempre vicino alla popolazione e ne condivide felicità e tristezze. Ciò ha anche effetti sull’ economia: un matrimonio, un anniversario e anche un funerale sono fonte di attrazione per moltissime persone che sul posto consumano, dormono e acquistano souvenir. Cosa che in una qualsivoglia Repubblica non è mai accaduto. La Francia repubblicana, ad esempio, mai ha visto la folla che vi fu a Windsor per il matrimonio di Henry e Meghan o le migliaia di persone per le strade di Bucarest in occasione del funerale di Michele I. Se a Londra le persone fanno la fila per visitare Buckingham Palace e a Monaco Vecchia per vedere il Palazzo dei Principi di Monaco, vi è molta meno ressa per l’ Eliseo di Parigi o il palazzo presidenziale di qualsiasi capitale repubblicana, pur considerando la loro storia e il grande pregio architettonico.».
Re Vittorio Emanuele III negli ultimi anni di regno;

Quando gli chiediamo di esprimersi circa le colpe di re Vittorio Emanuele III, il quale nel primo dopoguerra assunse una posizione ambigua rispetto al profilarsi dell’ eversione fascista, che divenne gradualmente connivenza, per poi perdere definitivamente la faccia con la fuga da Roma, Giacomo annuisce seriamente e spiega: «Un sovrano, in quanto capo di Stato e garante della Costituzione, deve agire sempre e comunque per il bene del proprio popolo, attenendosi il più scrupolosamente possibile alle leggi e alle procedure. Fare il re non è mai facile, e in quel periodo convulso, all’ indomani della Grande Guerra, lo fu in modo particolare. Re Vittorio Emanuele è sempre stato giudicato con il senno di poi, considerando tutto quel che accadde dopo il 1922 e il 1940, senza tener conto del principio di causa ed effetto che è fondamentale nella comprensione della storia. E’ una cosa molto facile da farsi, ma molto deviante.». L’ Italia, prosegue, era uscita vittoriosa ma molto provata dal primo conflitto mondiale, e benché mai prima di allora fosse stara così unita come nazione vi erano ancora forti disaccordi tra forze molto diverse fra loro che avrebbero potuto minare tale coesione faticosamente raggiunta. Il pericolo comunista, poi, era molto forte, come confermarono le grandi proteste di fabbrica del 1919 e del 1920, il cosiddetto biennio rosso, che fecero temere il pericolo di una rivoluzione comunista analoga a quella avvenuta nella Russia zarista nel 1917, in cui Nicola II e l’ intera famiglia Romanov vennero trucidati dai bolscevichi: «Dall’ altro lato vi erano i fascisti. In quel tempo erano una forza molto rumorosa, ma numericamente ancora non consistente. Godevano di grandi simpatie presso vari strati della società italiana. La classe produttiva non li vedeva negativamente, in virtù della loro attività anticomunista e di sostituzione degli operai di fabbrica quando questi scioperavano. Peraltro, si facevano promotori e difensori dell’ ordine, di cui la borghesia sottolineava fermamente il bisogno. I loro metodi forti, quando non violenti, non erano malvisti, anzi per molti era proprio ciò di cui l’ Italia aveva bisogno data la debolezza dei governi liberali che si erano succeduti dalla fine della guerra.».
Molti italiani di tutte le classi, quindi, li considerava favorevolmente. Lo straordinario dispiegamento di forze del 28 ottobre 1922 era facilmente affrontabile dalle forze armate, che potevano contare su una superiorità numerica e di mezzi notevole, ma turbò profondamente Vittorio Emanuele, che si domandò se la firma dello stato d’ assedio potesse innescate la guerra civile:
«Secondo gli storici, temeva che l’ esercito potesse ribellarsi. La nazione non poteva permettersi una guerra interna, avendo già pagato un altissimo tributo in vite umane nella Grande Guerra. Pensò quindi che affidare il governo a Benito Mussolini, capo di un partito poco rappresentato in Parlamento e per questo facilmente manovrabile dai più esperti esponenti del Partito Liberale, come il grande Giolitti, fosse la cosa più saggia da fare per evitare ulteriori violenze, in un’ azione peraltro pienamente prevista dallo Statuto Albertino. Inoltre, molti ritenevano Mussolini la persona più adatta a garantire un po’ di ordine a beneficio dell’ Italia, e secondo l’ opinione generale la sua esperienza politica sarebbe durata poco tempo.».
Dopo qualche istante di silenzio aggiunge che si rivelò certamente un gravissimo errore di valutazione: «Nessuno ha il dono della prescienza, e tutti possono sbagliare. In politica, come in guerra, vince chi sbaglia di meno. E a coloro che accusano il solo Vittorio Emanuele io di solito rispondo che fu colpevole quanto la maggioranza degli italiani che, come dimostrato da molte fotografie famose e tuttora reperibili in rete, si ammassavano in piazza ad osannare il loro grande Duce ogni volta che questi si faceva bello e usciva sul balcone per tenere un discorso, per poi abiurare teatralmente dopo il 1945, tanto che Sir Winston Churchill disse di trovarci bizzarri perché un giorno quarantacinque milioni di noi erano fascisti per poi averne altrettanti tra antifascisti e partigiani. E come più fonti hanno sempre riferito, il nostro sovrano non era affatto di simpatie fasciste. Peraltro, nel 1922, Mussolini ebbe solo trentacinque deputati fascisti, ma la cosa non gli impedì di ricevere trecentosei voti di fiducia e solo centododici contrari: i partiti democratici, popolari e liberali, votarono la fiducia al Duce, quindi perché dare l’ intera colpa a Vittorio Emanuele?».
Per contro, è convinto che in un secondo momento il monarca avrebbe effettivamente potuto e dovuto fare di più per arginare Mussolini: «Durante la cosiddetta diarchia il ruolo del re divenne marginale in funzione del cerimoniale retorico del Fascismo. Non intervenne dopo il delitto Matteotti, quando Mussolini se ne attribuì la responsabilità, e firmò le leggi fascistissime del 1925. Nonostante la ben nota antipatia dimostrata verso Adolf Hitler non si oppose all’ avvicinamento dell’ Italia al Terzo Reich, e neppure alle leggi razziali del 1938 e all’ entrata in guerra nel 1940. Le uniche riserve che manifestò al Duce furono di carattere procedurale, circa precedenze, ordine delle firme e rispetto del protocollo. La sua posizione ambigua rispetto all’ ascesa dell’ autoritarismo e dello stato di guerra, oltre che dell’ asservimento alla Germania, restano punti fermi negativi nella storia del suo lungo regno.».
Tuttavia, sostiene che nei primi anni del Novecento, quando salì al trono, anche grazie a lui l’ Italia si modernizzò, assistendo ad un miglioramento del tenore di vita della popolazione e all’ avvento di figure di gran valore sul piano della cultura, delle arti e delle scienze: «Fu favorevole ad una ripresa in senso liberale dello Stato aprendo la via all’ età giolittiana, nel corso della quale la lira italiana divenne una delle più solide monete al mondo. Fu sviluppata l’ industria tessile, elettrica e siderurgica, fu incrementata a Torino l’ industria automobilistica, fu potenziata la rete ferroviaria con il traforo di alcuni valichi alpini che permisero le comunicazioni con l’ estero e nel 1913 si tennero le prime elezioni a suffragio universale maschile. Nel 1919 l’ Italia era la settima potenza industriale del mondo, e vide grandi progressi tra la realizzazione di infrastrutture, soprattutto ferrovie, la crescita della marina mercantile, dell’ alfabetizzazione di massa, la definizione di una burocrazia e di una diplomazia, il consolidamento delle forze armate e un certo prestigio internazionale.».
In politica estera si mostrò favorevole alla conquista della Libia tra il 1911 e il 1912, in una politica colonialista che era già stata presa in considerazione nei governi ottocenteschi succedutisi durante il regno di suo padre, Umberto I, ed era praticamente comune a tutti gli Imperi europei del tempo, e all’ ingresso dell’ Italia nella Grande Guerra al fianco delle potenze dell’ Intesa, in un quasi colpo di Stato che sottrasse il nostro Paese alla precedente alleanza con l’ Impero tedesco e quello austroungarico, che persero rovinosamente la guerra:
«Il cambio di alleanza permise all’ Italia di annettere il Trentino-Alto Adige e la Venezia Giulia, che erano rimasti sotto il reame degli Asburgo, completando effettivamente l’ unità nazionale avvenuta nel Risorgimento.».
Succeduto al padre Umberto, assassinato a Monza il 29 luglio 1900 dall’ anarchico Gaetano Bresci, questo re gracile e di bassa statura, con le gambe smilze, figlio e nipote di cugini primi, regnò per ben quarantasei anni in cui gli eventi e i fatti importanti furono moltissimi e di vasta portata. Non tutto quel che avvenne e lui stesso promosse non fu da buttare via, anzi! Quando solleviamo il tema della fuga da Roma da parte del re, del Primo ministro, del governo e dei vertici militari all’ alba del 9 settembre 1943 alla volta di Brindisi, lo scrittore accenna ad un sorriso: «La fuga verso Brindisi, sotto la tutela degli Alleati, e l’ abbandono di Roma il giorno dopo l’ annuncio dell’ armistizio fu la pietra tombale sulla sua immagine. Ma fu vera fuga? Ad alimentare quell’ idea fu la propaganda della Repubblica Sociale Italiana, che per legittimarsi aveva tutto l’ interesse a gettare discredito sul re, azione ripresa e condotta fino ad oggi dagli antimonarchici. E attualmente vari storici ritengono che quello di Vittorio Emanuele non fu, come giudicano i più, un atto di vigliaccheria, ma una misura volta ad assicurare la sopravvivenza di Stato e governo dagli attacchi germanici, come fatto duemila anni fa da Pompeo di fronte alla marca su Roma di Giulio Cesare. Se i nazisti avessero occupato la capitale e catturato il re e il Primo ministro con chi avrebbero trattato gli Alleati? Con nessuno! E oserei aggiungere che restò in Italia, e non andò all’ estero come invece tanti altri capi di Stato…». Dopo qualche istante aggiunge che nel 1915, quando l’ Italia entrò nella Grande Guerra, lo stesso Vittorio Emanuele decise di trasferirsi da Roma al fronte, affidando la Luogotenenza del Regno, ossia la Reggenza, a suo zio Tommaso, II Duca di Genova, e seguendo dalle retrovie le operazioni di guerra, senza però esercitare il comando che lasciò agli ufficiali predisposti. Non si stabilì al quartier generale di Udine ma in un paese vicino, Torreano di Martignacco, presso Villa Linussa, da allora chiamata Villa Italia, con un piccolo seguito di ufficiali e gentiluomini. Ogni mattina, seguìto dagli aiutanti di campo, partiva in macchina per il fronte o a visitare le retrovie. La sera, quando ritornava, un ufficiale dello Stato Maggiore veniva a ragguagliarlo sulla situazione militare, e lui, dopo aver ascoltato, esprimeva il proprio parere senza mai scavalcare i compiti del Comando Supremo. Durante la fase finale della guerra risiedette alla villa dei conti Corinaldi, a Monselice, in provincia di Padova, ove si trattenne fino a guerra completamente cessata, seguendo lo stesso schema quotidiano, partendo molto presto in automobile per il fronte portando con sé per lo più la modestissima colazione, in cui non mancavano mai le cipolle cotte: «Nel 1918, addirittura, visse in trincea mangiando il rancio con gli altri soldati, che per quindici o venti giorni di seguito, se non di più, non si lavavano, non si cambiavano vestiti, biancheria e scarpe: questo stesso uomo non può essere vigliaccamente scappato via nel 1943! Per la sua partecipazione al fronte e la vittoria militare riportata venne chiamato ‘Re Soldato’ e ‘Re Vittorioso’. La sua popolarità crebbe moltissimo anche per la sua decisiva azione dopo Caporetto, quando si adoperò per bloccare l’ offensiva austriaca sul Piave. Non credo di dire chissà quale novità quando affermo che la storiografia incentrata su reali e politici non è mai veritiera, essendo abitualmente scritta dai vincitori (risata)…».
Vittorio Emanuele III a Villa Lispida durante la Grande Guerra;

Posando da una parte il saggio di Gianni Oliva, Giacomo conclude che Vittorio Emanuele non amava Mussolini, il cui sentimento era reciproco essendo un fiero repubblicano, ma tra alti e bassi rimasero ognuno al proprio posto per ventun anni: «Il re, ligio ai doveri costituzionali, pensava di dover destituire il Duce con metodi democratici e previsti dalla costituzione, prendendo spunto da un fatto che potesse costituire la causa fondamentale di una votazione parlamentare, almeno fino a quando vi fu un Parlamento legittimo. E poiché non fu mai trovata l’ occasione, si avvicinò al conte Galeazzo Ciano, Ministro degli affari esteri e genero dello stesso Mussolini, notoriamente antitedesco, ma il piano non ebbe seguito e ritrovandosi da solo di fronte agli esiti favorevoli sul campo riportati dall’ esercito nazista in quei primi mesi di guerra firmò la dichiarazione di guerra presentatagli dal Duce, che pur consapevole che le forze armate non erano ancora pronte a combattere temeva che un ritardo nel nostro ingresso nel conflitto, per quanto preteso a gran voce dai generali, avrebbe compromesso ogni rivendicazione territoriale.». Sul tentativo del re nel 1940 di giungere alla sostituzione di Mussolini, spiega lo scrittore, è possibile leggere alcune confidenze rese negli Anni Sessanta dal figlio Umberto al giornalista Luigi Cavicchioli, pubblicate da «Nuova Storia Contemporanea», la rivista diretta dallo storico Francesco Perfetti, e confermate da alcuni passaggi dei diari dello stesso conte Ciano, nelle quali si racconta che due mesi prima dell’ ingresso dell’ Italia in guerra, Vittorio Emanuele progettò davvero un colpo di mano con cui destituire il Duce in favore di Ciano e altri come lui, ritenuti fascisti moderati e legati alla Corona, in un tentativo che prevedeva un passaggio di poteri indolore, attraverso una soluzione legalitaria, durante una convocazione urgente del Gran Consiglio del Fascismo, che mettesse Mussolini in minoranza: «Come disse il professor Perfetti, era un piano ardito che però Ciano non si sentì di avallare e portare fino alle estreme conseguenze perché il suocero era al suo apogeo ed era favorito dalle brillanti vittorie dell’ Asse, che toglievano credibilità ai fautori del non intervento. Quando, nella notte fra il 24 e il 25 luglio 1943, il Gran Consiglio fu convocato per volere di Dino Grandi e altri congiurati e Mussolini venne finalmente messo in un angolo, la situazione era diversa da quella del 1940 e quindi non si poteva più adottare la soluzione auspicata dal re tre anni prima: il passaggio di potere non avrebbe riguardato più i fascisti moderati e filomonarchici, a cominciare dallo stesso Grandi, e non si poteva garantire una continuità con il passato benché alcuni esponenti di quel Fascismo moderato si illudessero in tal senso.». Il resto della vicenda è noto, con Mussolini convocato dal re, che lo destituì e lo trasse in arresto in vari posti, fino a Campo Imperatore, sul Gran Sasso.
Manifestazione monarchica a Roma l’ 8 novembre 2014

A proposito del Referendum istituzionale del 1946, Giacomo sostiene che ebbe nel luogo al momento sbagliato, quando gli animi tra la popolazione erano ancora troppo caldi e l’ Italia era ancora un Paese occupato da Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica, che avevano tutto l’ interesse ad influire sugli esiti del voto per imporre una forma statale piuttosto che un’ altra. Non poterono votare coloro che prima della chiusura delle liste elettorali si trovavano ancora al di fuori del territorio nazionale, nei campi di prigionia o di internamento all’ estero, né i cittadini dei territori delle province di Bolzano, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Zara, in quanto oggetto di contesa internazionale e ancora soggette ai governi militari alleato o jugoslavo. Furono inoltre esclusi coloro che erano rientrati in Italia fra la data di chiusura delle liste e le votazioni: quasi tre milioni di cittadini furono pertanto esclusi dal voto. E il risultato, sottolinea, continua ad essere dubbio ancora oggi a detta di molti italiani che tuttavia non si reputano necessariamente monarchici, ammettendo la possibilità di brogli e pressioni, se non addirittura entrambe le cose. E da allora, con la vittoria degli antimonarchici, ha avuto luogo una drammatica operazione di revisionismo storico che ha avuto il risultato di seminare equivoci, incomprensioni e inesattezze circa il periodo della Monarchia: «Il Regno d’ Italia non fu affatto un impero del male retto da sovrani ingiusti e insensibili alle sorti del loro popolo e del Paese. Vittorio Emanuele II, il nostro primo re, diede sempre prova di grande lealtà istituzionale, accettando la Monarchia costituzionale pur essendo di idee reazionarie e rispettando le decisioni dei suoi ministri anche quando la pensava diversamente. Durante il suo regno trovarono soluzione molti problemi che assillavano il neonato Paese: oltre alle annessioni di gran parte dei territori della penisola e al trasferimento della capitale a Roma, si arrivò al pareggio nel bilancio dello Stato e si arginò la piaga del brigantaggio che affliggeva il Meridione, pur senza debellarlo. Nel corso del reame di suo figlio Umberto I avvennero numerose innovazioni in campo sociale, come l’ allargamento della base elettorale, l’ istruzione elementare obbligatoria e gratuita, la lotta all’ analfabetismo, il miglioramento della rete sia stradale che ferroviaria, nonché l’ avvio del processo d’ industrializzazione che avrebbe portato il Belpaese, partito in ritardo, ad affiancarsi ai Paesi più avanzati europei. Il secondo monarca non presiedeva il governo, ma si limitava a ricevere il Primo ministro e, sentita la relazione, a firmare i decreti. Denotò di grandi doti di generosità in occasione delle numerose calamità che punteggiarono lo Stato, come quando avvenne l’ inondazione del Veneto nel 1882 e l’ epidemia di colera a Napoli nel 1884, e sul piano istituzionale, nel 1882 condusse il Paese fuori dall’ isolamento in cui era venuto a trovarsi, mentre in questo periodo si stava intensamente sviluppando il commercio sia interno che estero. Sul piano sociale, nel 1890 venne peraltro abolita la pena di morte che era invece ancora prevista in tutti gli altri Stati europei. Fu comunque duramente avversato per il suo rigido conservatorismo, inaspritosi negli ultimi anni, il suo indiretto coinvolgimento nello scandalo della Banca Romana, l’ avallo alle repressioni dei moti popolari del 1898 e l’ onorificenza concessa al generale Fiorenzo Bava Beccaris per la sanguinosa azione di soffocamento delle manifestazioni del maggio dello stesso anno a Milano. Nondimeno, grazie a sua moglie, l’ amatissima regina Margherita, il Quirinale divenne un luogo privilegiato di incontri e feste, assumendo la dignità di una grande reggia nella quale i nobili romani e meridionali, dapprincipio ostili, si avvicinarono gradualmente alla famiglia reale. La prima regina diede un grande tocco di popolarità ed eleganza che svecchiò le vecchie abitudini, maturate in un’ atmosfera periferica, moderata e militaresca. Durante il regno di Vittorio Emanuele III la corte abbandonò i fasti dell’ era umbertina, molto costosi per il bilancio dello Stato, come dimostrato dal fatto che l’ appannaggio reale di Umberto era stato il più alto tra le monarchie europee, divenendo la seconda per importanza e prestigio in Europa, subito dopo quella britannica. La Monarchia sabauda preservò la propria pompa regale fatta di rigorosa etichetta, carrozze scortate dai corazzieri a cavallo, discorsi del sovrano al Parlamento, gioielli, uniformi, manti di corte e molto altro ancora. Nelle residenze reali sparse per tutto il Paese, i Savoia di ogni ramo famigliare svolgevano i propri compiti di rappresentanza in nome del re nel corso di vari impegni istituzionali. L’ allora principe Umberto affascinava le folle, riscuotendo successo ogni volta e superando ampiamente la popolarità del padre, ben più schivo e borghese. Proprio per questo, unitamente alle proprie idee contrarie al regime, il Duce lo fece seguire dalla polizia segreta concedendogli poca visibilità sui giornali e per radio, addirittura con l’ ordine di riferirsi a lui come Principe di Piemonte, il suo titolo, anziché come principe ereditario. La sua fama di erede al trono passivo ed escluso dagli affari di Stato forse venne ricamata proprio in questo contesto.».
E dopo il voto del 1946, continua a spiegare, agevolato anche dal suffragio femminile sancito nel 1945, tutta Casa Savoia subì una campagna di demonizzazione, senza neppure essere chiamata in giudizio come si fece a Norimberga con i dirigenti politici e militari del Terzo Reich. Oggi si parla pochissimo dei Savoia, e la Monarchia stessa è considerata marginale. Ma è un problema di ignoranza, intesa come scarsa conoscenza. Bisognerebbe fare un sondaggio: non in molti sanno dire chi fu l’ ultimo re d’ Italia e altrettanto pochi ignorano chi fu Luigi Einaudi. Vennero opportunamente oscurate la figura del III Duca d’ Aosta, Amedeo, e della principessa Mafalda, secondogenita di Vittorio Emanuele. Il primo fu viceré d’ Etiopia dal 1937 al 1941 ed eroe dell’ Amba Alagi, che rimase trincerato sulla sua nave accerchiata dai britannici dichiarando di voler lottare sino all’ ultima cartuccia e all’ ultimo goccio d’ acqua, guadagnandosi il rispetto del nemico che rese l’ onore delle armi agli italiani. L’ altra aveva invece sposato un principe e ufficiale tedesco, ed è ricordata ancora oggi per l’ animo buono e disciplinato. Morì nel campo di concentramento di Buchenwald nell’ agosto del 1944, quando le truppe alleate bombardarono il lager:
«Direi che la famiglia reale ha sofferto la guerra e le sue conseguenze quanto una famiglia comune. Si può essere antimonarchici e repubblicani finché si vuole, ma penso che si dovrebbe sempre e comunque riconoscere pregi e difetti dell’ altra parte con equanimità, senza pregiudizi e odio animati dal famoso partito preso…».

Bandiera sabauda esposta il 2 giugno 2010 a Schiavi d’ Abruzzo

Quando gli chiediamo che senso abbia essere monarchici oggi e se è ottimista circa il ritorno della Monarchia in Italia, Giacomo si fa pensoso prima di rispondere: «La Monarchia ha rappresentato una forza molto importante nella nostra storia. Ed è un sistema che sa rinnovarsi costantemente. Vi è un trono nella maggioranza dei Paesi europei, e questo sa stare al passo con in tempi. Trovo improbabile un ritorno della Monarchia nell’ immediato, anche perché l’ Articolo 139 della nostra attuale Costituzione dispone che l’ Italia è e resterà una Repubblica, vietando con chiarezza una revisione costituzionale. Ma mai dire mai. Di certo in questa Repubblica non percepisco in alcun modo il concetto di appartenenza alla Patria, piuttosto vedo una lotta senza quartiere e neppure tregua tra ideologie e partiti. E se un bel giorno si facesse un referendum bis direi che andrebbe approfondito bene il tema e spiegato con cura di cosa si parla.».

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