Giacomo
Ramella Pralungo è da lungo tempo un ammiratore del Mahatma Gandhi, il celebre
filosofo e politico indiano la cui azione di disobbedienza civile e lotta
nonviolenta nel 1947 portò l’ India all’ indipendenza dall’ Impero britannico.
Di recente, la direzione dell’ Università del Ghana, ove si trovava un
monumento dedicato a Gandhi, ha provveduto alla sua rimozione per motivi di
razzismo, e lo scrittore desidera rendere nota la sua posizione in proposito,
esprimendo la sua opposizione a tale decisione e riflettendo sulle opinioni esposte
dal Mahatma durante il suo ventennale soggiorno in Sudafrica, punto di partenza
di un certo fraintendimento.
Il 17 luglio 1821,
leggendo la Gazzetta di Milano nel giardino della sua villa di Brusuglio,
Alessandro Manzoni seppe della morte in esilio di Napoleone Bonaparte, avvenuta
il precedente 5 maggio. Ad appena quindici anni di età il celebre autore
italiano aveva incontrato l’ inarrestabile condottiero francese al Teatro alla
Scala di Milano, rimanendone favorevolmente impressionato pur non esprimendo
mai alcun giudizio su di lui, contrariamente ad altri poeti del tempo, e in tre
giorni, colto da un certo turbamento, scrisse un’ ode che ebbe una vastissima
eco, «Il cinque maggio», tuttora riconosciuta come una delle sue opere
assolutamente più famose e apprezzate, in cui incluse un verso semplice e
diretto che esprime un immenso significato, su cui spesso non ragioniamo a
sufficienza: «Ai posteri l’ ardua sentenza.».
Come
studioso di storia credo proprio di poter affermare che non è facile
comprendere e valutare appieno un personaggio oppure un evento storico,
soprattutto nell’ immediato: occorre infatti prendere tempo per analizzare in
modo degnamente imparziale il contesto storico in cui il personaggio visse e
agì, mentre per gli eventi bisogna sempre considerare le cause, oltre che le
conseguenze. Personaggi come Giulio Cesare, Napoleone e Benito Mussolini ed
eventi quali la caduta della Repubblica romana in favore dell’ Impero, l’ avvento
dell’ assolutismo illuminato e del Fascismo italiano sono tuttora eventi ampi e
di vasta portata su cui si discute moltissimo.
Gandhi al 10 Dowing Street, 1931; |
Ebbene,
recentemente perfino un personaggio unanimemente conosciuto e rispettato come
il Mahatma Gandhi, uno dei miei personaggi storici preferiti, è stato al centro
di ricerche e valutazioni da cui è iniziato un animato dibattito che, peraltro,
ha portato alla rimozione di una statua a lui dedicata dalla sede di Accra, la
città in cui risiedo, dell’ Università del Ghana.
Nell’
ottobre 2015, due professori universitari sudafricani, Ashwin Desai e Goolam H. Vahed, pubblicarono «The South African Gandhi: Stretcher-Bearer of Empire»,
un libro che a quasi settant’ anni dalla morte del Mahatma fece immediatamente
molto discutere, dal momento che ne capovolse l’ immagine accusandolo di
razzismo nei confronti della popolazione nera. Il testo ripercorre i ventun
anni che Gandhi trascorse in Sudafrica dal 1893 al 1914, dapprima come avvocato
e poi come attivista, entrando in contatto con l’ apartheid, il pregiudizio
razziale e le condizioni di quasi schiavitù nelle quali vivevano i suoi centocinquantamila
connazionali, dando inizio alla militanza per i diritti civili e alla satyāgraha,
elementi fondamentali della sua futura lotta per l’ indipendenza dell’ India:
consultando gli archivi e leggendo i testi che lo stesso Gandhi scrisse durante
il lungo soggiorno sudafricano, i due insegnanti rinvennero stupefacenti
elementi in base ai quali il Mahatma giudicava i neri «selvaggi e primitivi», «dediti
a una vita indolente e nuda», conducendo pertanto un’ ostinata campagna atta a
convincere l’ amministrazione britannica che la comunità indiana era intrinsecamente
superiore a loro.
L’ immagine ammirata
e addirittura riverita di Gandhi, che proprio in Sudafrica iniziò l’ opera per
cui rimase segnato nella storia, ne soffrì ampiamente, al punto che persino la
scrittrice indiana Arundhati Roy ammise che dopo la pubblicazione di questa
nuova biografia nessuno avrebbe potuto pensare come prima a questo grande uomo.
Secondo
le pagine di «The South African Gandhi:
Stretcher-Bearer of Empire», come già anticipato dal Washington Post nella
sua recensione, appena giunto in Sudafrica, Gandhi avviò una tenace battaglia
sugli ingressi separati per bianchi e neri all’ ufficio postale di Durban, dal
momento che non trovava giusto che gli indiani rientrassero nella stessa
categoria dei nativi sudafricani, che chiamava «cafri», e domandò un ingresso
separato per gli indiani: «Ci feriva moltissimo questa mancanza di rispetto, e
chiedemmo alle autorità di eliminare quell’ odiosa distinzione, e ora ci hanno
dato tre ingressi per i neri, gli asiatici e gli europei.». In una lettera
aperta al parlamento di Natal, nel 1893, peraltro, scrisse: «Ho avuto l’ ardire
di sottolineare che sia gli inglesi che gli indiani provengono dalla stessa
stirpe, chiamata indoariana. Una credenza generale sembra prevalere nella
Colonia secondo la quale gli indiani sono un soltanto un po’ meglio, o
addirittura uguali, ai selvaggi e cioè ai nativi dell’ Africa. I bambini
crescono con questo pensiero, e il risultato è che gli indiani sono trascinati
in basso nella stessa posizione dei primitivi cafri.».
In
una petizione del 1895, il futuro Mahatma espresse peraltro la preoccupazione
che un minore riconoscimento giuridico per gli indiani avrebbe avuto come
risultato una degenerazione così forte che dalle loro abitudini civilizzate
sarebbero stati degradati alle abitudini dei nativi, e nello spazio di una
generazione ci sarebbe stata poca differenza nei costumi, nelle abitudini e nel
modo di pensare tra la discendenza indiana e quella locale, mentre durante un
discorso a Mumbai, nel 1896, disse che gli europei di Natal volevano degradare
gli indiani al livello dei primitivi la cui unica occupazione era la caccia, e
la cui unica ambizione era possedere un certo numero di mucche per comperarci
una moglie e poi passare il resto della vita nell’ indolenza e nella nudità.
Nel
giugno 2016, alcuni mesi dopo la pubblicazione di «The South African Gandhi:
Stretcher-Bearer of Empire», all’ Università del Ghana di Accra venne inaugurata
una statua in onore di Gandhi in occasione della visita del Presidente della Repubblica Indiana, Pranab
Mukherjee, iniziativa che sollevò l’ opposizione di vari professori e studenti,
secondo cui la presenza della statua rappresentava «uno schiaffo a causa dell’
identità razzista di Gandhi». Venne pertanto lanciata una petizione in rete per
chiederne l’ abbattimento, ed essa raccolse migliaia di adesioni in appena
poche ore: attualmente il monumento non è più al suo posto.
Il monumento all’ Università del Ghana; |
So per esperienza diretta
che quando ci si occupa di personaggi e avvenimenti storici è molto frequente
fare i conti con l’ ottica dei cronisti che ci trasmettono le informazioni: essi
influiscono sulla sostanza delle informazioni che riceviamo, tanto che nella
maggior parte dei casi le fonti storiche sono state ormai ridotte a qualcosa di
nocivo, proprio come quegli articoli di giornale riguardanti avvenimenti
politici e sociali che riferiscono una sola notizia secondo i punti di vista
più diversi e contrastanti tra loro, impedendoci di comprendere la verità dell’
avvenimento stesso. Perché la verità si trova sempre e soltanto nei fatti, mai
nelle opinioni personali. Comunque sia è un fatto risaputo: la storia viene
opportunamente trasformata in leggenda, e la leggenda in mito, quindi le
convinzioni e i punti di vista finiscono per diventare più potenti della stessa
verità a cui tutti dovremmo sforzarci di attenerci.
Nel
caso particolare del Mahatma Gandhi e della sua posizione nei riguardi della
popolazione nera, se le fonti consultate dai professori Desai e Vahed venissero
ritenute attendibili, come ritengo possibile, è mia intenzione sottolineare che
bisognerebbe ricordare che in quel tempo il fenomeno del razzismo era
fortemente sentito quasi ovunque nel mondo, e che si manifestava in modo
specifico a seconda delle aree geografiche. Peraltro, all’ interno delle
singole società era presente una vigorosa suddivisione sociale. Purtroppo è
così anche oggi, sebbene avvenga in modo diverso perché viviamo un’ altra era.
Tutti gli uomini e le donne vissuti in questo mondo hanno subìto l’ influenza
della mentalità e della cultura vigenti nel proprio contesto: lo stesso Gandhi
nacque a Porbandar, una cittadina sulle coste occidentali dell’ India, ove
visse la sua giovinezza in una benestante e tradizionale famiglia induista
della casta mercantile dei Bania. Eppure, in ogni tempo ci sono coloro che a seguito
di determinate esperienze intuizioni si allontanano dalla visione dominante
delle cose e tentano di andarvi oltre per consentire un’ evoluzione benefica al
proprio ambiente, da lasciare in eredità alle generazioni future. Il Mahatma
Gandhi era uno di questi uomini, infatti lottava con convinzione contro il millenario
cappio delle caste indù, con un occhio di grande riguardo verso i paria, o
dalit, ossia gli «oppressi»
ritenuti impuri, nonché contro l’ usanza dei matrimoni infantili a cui lui
stesso era stato obbligato e contro l’ odio che contrapponeva induisti e
musulmani, nonché indiani e britannici, così come occorre ricordare che era venuto
al mondo nella più importante colonia britannica, e che visse quattro anni a
Londra per studiare giurisprudenza presso la University College, adattandosi
alle abitudini britanniche, vestendosi e cercando di vivere come un vero
signore locale nonostante l’ opposizione della sua casta per l’ impossibilità di
rispettare i precetti induisti in Occidente, e da cui venne dichiarato
fuoricasta, venendo poi riammesso nella casta al suo ritorno in Oriente con l’
aiuto del fratello.
Peraltro,
occorre ricordare che quando giunse in Sudafrica per difendere una ditta
indiana in una causa locale aveva appena ventiquattro anni: allora il giovane
Gandhi non era ancora nessuno, e fu proprio il Sudafrica a trasformarlo
gradualmente in una guida visionaria che poi sarebbe stata ricordata come
Mahatma, la «Grande Anima». Dopo essere entrato profondamente in contatto con
la cultura britannica durante il suo soggiorno londinese maturò una grandissima
fiducia nella proclamazione pubblicata dalla regina Vittoria il 1 novembre 1858,
che a seguito della ribellione del 1857 estendeva formalmente la sovranità
britannica sull’ India e prometteva al suo popolo gli stessi privilegi e
protezione di cui godevano tutte le altre popolazioni, peraltro nel desiderio
che gli indiani venissero ammessi liberamente e con imparzialità agli uffici
imperiali: con tale spirito, quando nel 1899 scoppiò la Seconda Guerra Boera, Gandhi, membro del Natan Indian Congress, sospinse
con onore e fierezza la comunità indiana a offrire i propri servigi alla Corona
come «cittadini a pieno titolo dell’ Impero britannico, pronti a farsi carico
dei loro obblighi e a meritarsi i diritti loro concessi». In un secondo
momento, tuttavia, con l’ approvazione del Black Act nel 1906, con cui si
costringeva la popolazione indiana che viveva nella provincia di Transvaal a
registrarsi, Gandhi iniziò a tenere incontri e a incitare i compatrioti a
bruciare i permessi che dovevano portare con sé, ritrovandosi in una prigione
per cafri: in un certo modo comprendeva e accettava la discriminazione da parte
dei bianchi, ma non di essere messo sullo stesso livello dei nativi africani,
nella convinzione che si dovessero organizzare celle separate. Fu solo con l’
andare del tempo che il Mahatma dichiarò che il suo cuore era con gli zulu, spiegando
che le crudeltà che aveva visto compiere contro di loro erano state il più grande
punto di svolta della sua vita spirituale, esattamente ciò che lo aveva portato
ad abbracciare, come strategia di resistenza, la nonviolenza.
Insomma,
di fronte a questo lato oscuro della celebre guida indiana, finora rimasto
inedito, ritengo che sia ragionevole dedurre che come normalissimo essere umano
sia partito letteralmente dal nulla, come tutti noi, e che all’ inizio della
sua esistenza abbia semplicemente avuto certi pregiudizi che, nel corso della
sua esperienza decennale come persona, devoto religioso e guida sia politica
che spirituale, vennero gradualmente superati da un ideale più universale. Dopo
tutto, non è forse vero che l’ immensa e antica India è un insieme di
popolazioni, lingue e religioni tra loro assai diverse? Se proprio si vogliono
lanciare accuse di razzismo slegate dal contesto originario, io stesso potrei
ricordare ai ghanesi, cristiani di grande fede, che nel Vangelo di Matteo e in
quello di Marco si racconta che Gesù incontrò una donna cananea che lo supplicò
di esorcizzare la figlioletta indemoniata, ma lui le rispose: «Non sono stato
inviato che alle pecore perdute della casa di Israele.». Solo dopo una certa
discussione il Nazareno, rimasto colpito dalla fede con cui lei domandava il
miracolo, concesse la guarigione della figlia, e detto questo mi si permetta di
aggiungere che se oggi il Ghana può vantare davanti al mondo di essere un Paese
indipendente dalla Gran Bretagna dal 6 marzo 1957, parte del merito va
sicuramente attribuito al Mahatma Gandhi, che appena dieci anni prima con la
sua azione in India aveva dato il via ad una reazione a catena che di fatto
portò alla dissoluzione dell’ Impero britannico.
Giacomo Ramella
Pralungo
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